martedì 27 novembre 2007

CRESCITA E DECRESCITA

Estratto dal libro TAV IN VAL DI SUSA

Marco Cedolin




LA CRESCITA INFINITA


Lo “sviluppo” è simile ad una stella morta,
di cui ancora percepiamo la luce,
anche se si è spenta da tempo,
e per sempre.
Gilbert Rist


Il tema dell’Alta Velocità, oltre ad evidenziare in maniera definita i legami indissolubili che saldano fra loro le grandi oligarchie di potere, coese intorno ad un obiettivo unico che è costituito dalla ricerca sistematica del profitto, ci porta ad alcune riflessioni di più ampio respiro concernenti la gestione delle risorse e del territorio in una società complessa come quella contemporanea.

La gestione di tipo capitalista delle risorse economiche, finanziarie, sociali ed ambientali, propria dei sistemi politici occidentali si sta ormai diffondendo sempre più in tutti i paesi del mondo, in seguito ad un fenomeno di globalizzazione che tende ad uniformare le varie specificità nazionali, appiattendole su di un unico modello gestionale.
Al modello capitalista della borghesia industriale che accumulava profitto costruendo ricchezza si è sostituito quello del capitalismo di rapina che accumula profitti con la speculazione, la sopraffazione militare, la devastazione ambientale.
L’occidentalizzazione del mondo e il conformismo planetario impongono il saccheggio senza freni della natura e la distruzione di tutte le culture differenti.
La logica del profitto assurta a monovalore assoluto, l’esasperata tendenza al gigantismo, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di una cerchia sempre più ristretta di persone, l’abitudine a monetizzare ogni aspetto della realtà che ci circonda, l’assoluta incapacità di rapportarci con la natura, il prevalere del nozionismo sulla cultura, del vociare scomposto sull’ascolto, della violenza sul dialogo, sono solo alcuni aspetti della nostra società contemporanea.
La grande imprenditoria industriale, economica e finanziaria è stata oggetto di concentrazioni sempre più massicce (fusioni, incorporazioni ecc.) che hanno avuto la conseguenza di creare veri e propri colossi transnazionali (Corporation, Multinazionali) che sono in grado di controllare tanto i mercati quanto le scelte politiche dei singoli governi.
La tendenza esasperata alle privatizzazioni ha permesso ai grandi poteri privati di subentrare sempre più allo Stato nella gestione della cosa pubblica, a tutto svantaggio della collettività che sta pagando il conto sotto forma di maggiori costi dei servizi e minore qualità degli stessi.

Tutto ciò che risulta essere “piccolo” è stato liquidato come arcaico, inutile, desueto, sacrificabile, in ossequio ad una logica distorta che pone il “grande” come unico esempio di modernità, progresso, futuro.
Le piccole attività commerciali sono così diventate prima grandi magazzini e poi ipermercati, i negozi si sono trasformati in grandi catene di franchising, le piccole banche in grandi gruppi bancari, i piccoli coltivatori e allevatori hanno lasciato il posto alle grandi coltivazioni e ai grandi allevamenti a sfruttamento intensivo, i cinema alle multisala, la piccola imprenditoria edile è stata fagocitata dalle grandi imprese di costruzione, le quali a loro volta sono confluite in grandi gruppi o cooperative. Gli esempi potrebbero essere migliaia e ribadiscono sempre il concetto secondo il quale solo ciò che è grande può essere funzionale ad un modello di sviluppo basato su una logica che privilegia la dimensione e non la qualità.

Si tratta di una società dove ogni cosa è funzionale al mito della crescita, che visualizza gli uomini esclusivamente come produttori e consumatori, il consumo non risponde più alla soddisfazione di un bisogno, ma si caratterizza soprattutto come un mezzo di produzione. Quando le persone non percepiscono il bisogno di merci o servizi, è necessario che detto bisogno sia prodotto artificialmente attraverso l’uso (e l’abuso) della pubblicità.
Una società sacrificata al progresso, inteso come enfatizzazione della produzione, dove l’accrescimento degli scambi commerciali e del volume dei beni prodotti, rappresenta un valore di per sé, senza tenere nella minima considerazione le qualità dei beni e le conseguenze della loro produzione sulla socialità, sull’ambiente e sul vivere quotidiano di noi tutti.

Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di ciascuno di noi, il tessuto sociale è stato violentato in profondità, il piccolo commercio e la piccola imprenditoria (fiori all’occhiello della nostra economia nel periodo dell’espansione) hanno praticamente cessato di esistere, il libero mercato si è trasformato in una sorta di oligopolio controllato dalle multinazionali e il mondo del lavoro si sta trasformando ogni giorno di più in una terra di nessuno dove dominano la precarietà, l’incertezza e la disperazione.

Anche il linguaggio sta cambiando in profondità, le parole non hanno più una valenza specifica funzionale al proprio contenuto, ma sono diventate gusci vuoti privati di un significato intrinseco, adatti non a rappresentare un concetto ma semplicemente a soggiogare emotivamente l’interlocutore.
Quante volte guardando la televisione o leggendo i giornali c’imbattiamo in concetti quali “strategicità di un’opera”, “necessità di sviluppo”, “funzionale agli obiettivi di crescita”, “indispensabile alla ripresa economica”, “democraticizzazione di un popolo”, “recupero di competitività”, “maggiore flessibilità”, “mercato globale”, “grandi infrastrutture d’importanza internazionale”.
Si tratta di frasi fatte, luoghi comuni, esternazioni ad effetto che pur essendo prive di un reale significato sortiscono comunque il risultato voluto, poiché tendiamo ad essere influenzati dalla ridondanza del concetto, senza preoccuparci di scavare nel suo contenuto. Chi ha fatto l’esternazione non sarà mai in grado di spiegarci perché quella determinata opera è strategica o le motivazioni della necessità di sviluppo, oppure le ragioni per le quali una decisione è funzionale agli obiettivi di crescita o indispensabile alla ripresa economica. Nessuno sarà in grado di spiegarci come sia possibile esportare la democrazia, cosa significhi realmente recuperare competitività, quale sia l’importanza internazionale di un’infrastruttura o perché sia indispensabile avere maggiore flessibilità e quali siano i parametri di un mercato globale.
Nonostante ciò noi avremo metabolizzato l’importanza prioritaria ed imprescindibile del concetto, accettandolo come necessario ed indispensabile.
Un altro esempio del condizionamento che ogni giorno ci viene imposto tramite l’uso improprio delle parole è costituito da quei termini che vengono usati come sinonimo di modernità, pur non avendo di per se stessi alcuna valenza specifica.
Veloce, grande, globale, sostenibile, internazionale, imprescindibile, strategico, europeo, progresso, futuro, sviluppo, nuovo, crescita, competitività, prioritario, sono tutti termini che vengono con violenza ripetuti dai media in maniera martellante e ossessiva per dare ai concetti più svariati una patente di buono, bello e moderno.
E ancora “sviluppo sostenibile”, “ecologia industriale”, “crescita verde”, “produzione pulita”, “economia solidale”, “guerra pulita”, “globalizzazione dal volto umano”, sono tutte contraddizioni in termini che rivelano il tentativo di attribuire una funzione ecologica o sociale ad elementi che per la loro stessa natura mai potrebbero vantarla.
Costruendo il mito dell’onnipotenza della tecnica, sia essa scientifica o economica, si cerca di proporre come rimedio la causa stessa della malattia, nell’ottica di una visione riduttiva e regressiva dell’uomo, inteso solo come consumatore, tubo digerente e ingranaggio della macchina produttiva.

Ho aperto questa piccola parentesi concernente il linguaggio perché proprio attraverso di esso i grandi poteri politici economici e finanziari tentano di veicolare quello della crescita infinita come l’unico modello di sviluppo possibile e praticabile.
In realtà questa sorta di oligarchia preposta a prendere le decisioni e operare le scelte è talmente preoccupata ed ossessionata dall’obiettivo di mantenere la propria posizione di preminenza sociale, da avere perso ogni contatto con il mondo reale, con le persone, con il territorio e l’ambiente.
Gli oligarchi che accusano di arretratezza i cittadini della Valle di Susa, di Acerra, di Scanzano, di Forlì, definendoli nemici del progresso hanno solamente paura di guardare negli occhi il nuovo che avanza.
Sono piccoli anacronistici retaggi del passato, ricchi e potenti cavernicoli imbalsamati che non riescono ad immaginare il futuro se non come il perpetuarsi sistematico del passato. Tentano d’imporre con i manganelli e la prevaricazione un modello di sviluppo ispirato alla crescita infinita, senza tenere conto della realtà oggettiva che le risorse, la terra e l’ambiente sono realtà finite che pongono limiti invalicabili.
Scavano nuovi tunnel, costruiscono nuove strade, nuovi viadotti, nuovi ponti, nuove ferrovie, fingendo d’ignorare il fatto che l’unico tunnel dal quale dovremmo seriamente preoccuparci di uscire è quello del disastro ecologico/ambientale che abbiamo innescato attraverso il perseguimento di un progresso insensato che ci ha portato a fagocitare la natura e l’ambiente.
Parlano d’incrementi esponenziali del traffico, di milioni di tonnellate di merci, di raddoppio della produzione, senza rendersi conto che i cittadini quelle merci non potranno mai acquistarle perché grazie alle loro scelte non guadagnano più abbastanza nemmeno per arrivare alla fine del mese.
Immaginano un mondo nel quale si moltiplichi all’infinito il numero delle auto circolanti, dei camion, dei treni, delle navi, delle merci, delle industrie, dei grattacieli, delle centrali nucleari e termoelettriche, degli oleodotti, dei tralicci elettrici, delle antenne TV, dei beni di consumo, ma dimenticano che il mondo è finito, come il petrolio e la capacità del sistema ambiente di sopperire alla devastazione. Fra poco non ci saranno più prati da cementare, colline da spianare, montagne da perforare, terreni da asfaltare, fiumi da inquinare, aria da soffocare e mancherà anche il combustibile per fare funzionare le trivelle, le frese, le locomotive, i motori, i martelli pneumatici, le gru, le fabbriche.
Vaneggiano di progresso ma stanno costruendo una civiltà frenetica, priva di valori, votata all’ipercinetismo, all’insicurezza, alla precarietà, alla paura del futuro.
Perseguono la velocità degli spostamenti ed ignorano quella pensiero, costruiscono treni ed auto sempre più veloci, senza accorgersi che se non ci si ferma un attimo a riflettere fra poco non ci sarà più nessun posto in cui andare.
Guardano al mondo come ad una materia prima ed osteggiano coloro che riescono a vederlo come un organismo vivente, guardano alle persone come a delle risorse e le manganellano quando prendono coscienza di sé e chiedono di poter decidere del proprio futuro.
Inseguono un modello di sviluppo che in realtà non riesce più a progredire ma sta sortendo il solo effetto di riportare indietro la qualità della vita di tutti.

Sono loro gli arretrati, i nemici del progresso, i dinosauri incartapecoriti, non gli abitanti della Valle di Susa e tutti coloro in Italia e nel mondo che stanno prendendo coscienza di come questa non sia la strada giusta, in quanto destinata a non portare da nessuna parte.
Sono loro che guardano senza vedere e ascoltano senza sentire, impegnati a perpetuare l’unica logica che conoscono, quella delle speculazioni, dei giochi di potere, delle scalate societarie, degli intrighi di palazzo, della malversazione.


DECRESCITA E FUTURO


Non si tratta assolutamente di tornare indietro,
si tratta di deviare collettivamente,
prima che sia troppo tardi per farlo.
Paul Aries


Una società sana adatta il proprio stile di vita all’ambiente che la circonda, la stortura del nostro sistema attuale consiste invece nella pretesa di adattare l’ambiente al proprio stile di vita, assalendolo e violentandolo, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze derivanti da queste violenze che non si ripercuotono solamente in termini di devastazione ambientale, ma anche di giustizia ed equilibrio sociale, dimostrando come sopravvivenza biologica e sopravvivenza sociale siano elementi indissolubilmente legati fra loro.
L’unica strada percorribile passa attraverso il superamento dei concetti di modernità e di sviluppo, in quanto essi contengono implicitamente la volontà di mercificare i rapporti fra le persone e con la natura. Non possiamo, come scrive Nicholas Georgescu – Roegen, produrre frigoriferi, automobili o aerei migliori e più grandi, senza produrre anche dei rifiuti migliori e più grandi che contribuiranno ad accentuare i termini del problema.
Occorre necessariamente accostarsi ad un concetto di decrescita, intesa non come recessione o impoverimento, bensì come un’occasione per tutti, che sia funzionale ad un nuovo tipo di società, nella quale la qualità della vita, il tempo libero, le relazioni sociali, siano valorizzati e prevalgano sulla produzione e sul consumo di prodotti inutili e nocivi. Una società nella quale i valori economici siano ricollocati nella loro giusta funzione di semplice mezzo della vita umana e abbandonino quella posizione di assoluta centralità che li porta a rappresentare il fine ultimo della nostra esistenza.
La prospettiva della decrescita, accettata e meditata, non si pone come antagonista al mito della crescita, ormai senza futuro in quanto vittima delle sue stesse contraddizioni, bensì come alternativa alla recessione che sarebbe inevitabile conseguenza di un risultato di crescita negativa (che già oggi abbiamo iniziato a sperimentare) applicato ad una società che identifica nella crescita economica l’unico monovalore assoluto.

Entrare nell’ottica della decrescita significa innanzitutto aggiogarsi dall’immaginario economico che la pubblicità e le regole del modello consumistico hanno instillato nella nostra mente. Un immaginario che mette i beni di consumo e non la persona al centro della nostra esistenza e c’impone di ricercare il benessere e la felicità solo attraverso il successo economico, la competizione, il possesso delle cose.
Il benessere e la felicità si possono realizzare attraverso la soddisfazione di una quantità limitata di bisogni reali, anziché attraverso il soddisfacimento illusorio di un’infinita miriade di bisogni effimeri e indotti dal modello culturale dominante.
La vera ricchezza e la vera gioia allignano nella costruzione di relazioni sociali conviviali, nel godimento del tempo liberato, nella riscoperta della nostra natura umana, piuttosto che nella nevrotica bulimia che ci porta a fagocitare senza sosta quantità sempre maggiori di beni materiali, nel vano tentativo di riempire quei vuoti esistenziali che devastano la nostra interiorità. Come sottolinea Hervé Martin, “Una persona felice non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo marginalmente all’attività economica della società”.
Liberarsi dai condizionamenti psicologici che decenni di cultura dominante, ispirata al mito della crescita per la crescita e del progresso inteso come consumo e ragione ultima della nostra esistenza, hanno costruito nel nostro intimo è prerogativa imprescindibile. Questo poiché sarebbe impensabile immaginare un progetto di decrescita che si inneschi su un modello di società come quello attuale, imperniato esclusivamente sull’economia, sul lavoro e sul capitale. La popolazione, posta nell’impossibilità di perseguire l’enorme mole di stimoli indotti, non necessari ma percepiti come tali, perderebbe ogni punto di riferimento e si costruirebbero le prerogative per una situazione di caos sociale dalle conseguenze catastrofiche.
Solamente anteponendo nuovi valori a quelli attualmente dominanti e decolonizzando le nostre menti dall’egemonia che concetti come crescita e sviluppo detengono nel nostro immaginario, sarà possibile concepire e realizzare una società di decrescita serena, antitetica a quella dell’economia.
La cooperazione dovrebbe prevalere sulla competizione sfrenata, l’altruismo sull’egoismo, il piacere dello svago e dell’accrescimento culturale sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto per la qualità del nostro operato sull’efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, il piccolo sul grande e così via.
A questo punto sarebbe possibile pianificare la decrescita, ridurre al massimo l’impatto ambientale derivante dall’attività umana, ridimensionare l’enorme mole di spostamenti di uomini e merci e tutte le loro conseguenze negative, eliminare l’eccessiva invadenza della macchina pubblicitaria, contrastare la pratica che accelera artificialmente l’obsolescenza dei manufatti e la diffusione dei prodotti usa e getta, perseguire un nuovo rapporto, d’interscambio e non di aggressione fra l’uomo e la natura e fra uomo e uomo.

Il passaggio da una società capitalista, imperniata sul consumo e figlia del mito della crescita e dello sviluppo, ad una società più sobria e consapevole, votata ad una decrescita serena che armonizzi i nostri bisogni e le nostre attività con l’ambiente che ci circonda, riconoscendo la realtà oggettiva che le risorse naturali e il sistema terra sono entità finite e non possono perciò venire depauperate e violentate senza che ci si ponga dei limiti, è una sfida estremamente ambiziosa e delicata che non può essere affrontata con superficialità. Al tempo stesso si tratta di un passaggio obbligato se vogliamo scendere dolcemente e lentamente il declivio in maniera costruttiva, serena e non traumatica, anziché sprofondare con violenza nel baratro che ormai si pone minaccioso dinanzi ai nostri occhi.
Nessuna scelta in questo senso potrà mai provenire dall’oligarchia di potere dominante, interessata esclusivamente al perseguimento del profitto che trova possibilità di concretarsi solo in una società basata sull’incremento continuo della crescita e dei consumi.
La spinta verso il cambiamento dovrà avvenire necessariamente dal basso, dalla gente comune, dai cittadini, che iniziano a percepire la condizione di disagio all’interno delle loro realtà personali. La protesta contro la TAV in Valle di Susa e molte altre situazioni ad essa assimilabili, testimoniano un primo tentativo ancora in fase embrionale di esternare questo disagio e collocarlo al di fuori del microcosmo locale e personale nel quale è nata la percezione. Proprio per questa ragione occorre guardare a questi fenomeni, cercando di leggerli in profondità, con l’occhio disincantato di chi riesce a concepire il futuro come un qualcosa di diverso che non sia necessariamente una serie infinita di repliche del presente.

mercoledì 14 novembre 2007

SONO TUTTI TERRORISTI

Marco Cedolin

Bisogna ammetterlo, l’Italia è un paese in balia del terrorismo ed occorre fare subito qualcosa per ristabilire l’ordine sociale. Ai terroristi islamici, presenti a migliaia secondo i ripetuti allarmi lanciati a più riprese in questi anni da servizi segreti e Ministero dell’Interno, si sono aggiunti lo scorso inverno le “BR cgil” e da quest’ultima domenica perfino i “tifosi terroristi” che hanno reagito in maniera scomposta e violenta alle notizie concernenti la morte di Gabriele Sandri.
Il mondo della carta “stracciata” e del “teleimbonimento” schiuma rabbia a più non posso invocando repressione, giri di vite e quant’altro, mentre intellettuali, opinionisti e sociologi si profondono in ardite analisi della società italiana in balia di facinorosi e violenti, volte a giustificare i propri lauti stipendi. Il sociologo Franco Ferrarotti, ardito fra gli arditi, sulle pagine del Corriere della Sera si spinge fino a prefigurare la volontà di costituire un vero e proprio partito trasversale da parte dei tifosi violenti. Un partito che a suo dire intenderebbe cavalcare l’antipolitica, traendo ispirazione da Beppe Grillo per poi unirsi alla destra di Storace e (immaginiamo perché questo Ferrarotti non lo dice ma lo lascia solo intendere) prendere il potere attraverso un “golpe degli ultras” che ponga fine alla nostra democrazia.

Dopo due settimane di emergenza criminalità ed immigrazione, nelle quali giornali e TV si sono resi artefici di un vero e proprio terrorismo psicologico volto a creare panico e disorientamento nei lettori e teleutenti, adesso la fonte del terrore sembra essersi spostata dagli immigrati ai tifosi. Tutto fa brodo, quello che conta è solamente il risultato finale, lastricare le strade di paura e far si che i cittadini non prestino attenzione alle leggi che vengono approvate in parlamento, impegnati come sono a domandare più sicurezza e più repressione. La speranza, neppure troppo recondita, di una politica sempre più moribonda è quella che un popolo terrorizzato dal terrorismo, dalla criminalità e adesso perfino dagli ultras possa essere disposto a barattare qualunque sacrificio in cambio della propria sicurezza.
Tutti coloro che lunedì hanno letto i giornali ed ascoltato i TG sono stati informati fin nei minimi particolari riguardo alla guerriglia urbana dei tifosi romani e bergamaschi, con annesse auto e cassonetti bruciati, poliziotti feriti e cori ingiuriosi, ma la morte di Gabriele Sandri ha continuato a rimanere avvolta nel mistero, pur in presenza di un poliziotto indagato che avrebbe sparato ad altezza uomo senza alcun motivo, da una parte all’altra di un’autostrada trafficata. Man mano che le ore passavano l’uccisione di Gabriele diventava sempre più questione di secondo piano, liquidata come una “tragica fatalità” mentre le violenze dei tifosi passavano alla ribalta fino a diventare l’unico argomento sul quale occorreva riflettere, discutere, analizzare e speculare.

La morte di un automobilista (non di un tifoso, perché un uomo tranquillamente seduto in auto è innanzitutto un automobilista a prescindere da dove sia diretto) ammazzato senza alcun motivo da un poliziotto mentre si trovava all’interno di un’auto che si allontanava da un autogrill non può essere liquidata come una “tragica fatalità” dovuta a circostanze avverse, non è giusto nei suoi confronti, nei confronti della sua famiglia e in quelli dei suoi amici. La morte di Gabriele Sandri avrebbe dovuto essere il vero oggetto delle riflessioni e delle analisi, mentre invece si è preferito spostare l’attenzione unicamente sulle reazioni che in qualche modo l’omicidio ha ingenerato.

Tutti hanno reagito alla morte di Gabriele nella maniera sbagliata. Il questore di Arezzo è stato incapace di fornire una qualche risposta plausibile ad un delitto tanto brutale quanto inspiegabile ed ha continuato per una giornata intera a farfugliare di “colpi sparati in aria” e fantomatiche risse, salvo poi ammettere l’esplosione di un colpo di pistola ad altezza uomo solo il giorno successivo, dopo che una testimonianza oculare inchiodava il poliziotto sparatore alle proprie responsabilità.
I palazzi del calcio, ottenebrati dal miliardario business domenicale, sono stati incapaci di percepire l’estrema gravità dell’accaduto e anziché decidere di sospendere il campionato, come sarebbe stato sacrosanto, hanno scelto di mantenere in vita comunque il circo equestre come se non fosse successo nulla.
I tifosi imbufaliti ed esasperati dall’assoluta inanità dei vertici politici e calcistici (non certo animati dall’antipolitica) si sono abbandonati alla violenza che non è mai giustificata né giustificabile e si sono resi artefici di atti di teppismo ed aggressioni alla polizia durati fino a tarda sera.
E’ stata una domenica di reazioni scomposte, sbagliate, di violenza senza senso, di leggerezze, di errate valutazioni, ma soprattutto la domenica nella quale un ragazzo di 28 anni è stato ammazzato a causa di “una tragica fatalità” in un autogrill di un’autostrada italiana da qualcuno che per mestiere dovrebbe garantirne l’incolumità,.

La morte di Gabriele è il vero terrore, quel terrore che magari per un attimo infinitesimale, baluginerà negli occhi di chiunque si trovi ad incrociare una pattuglia di poliziotti nei pressi di un autogrill, ed è un terrore profondamente sbagliato perché nasce da qualcosa d’incomprensibile e senza senso che nessuno ha cercato di spiegare, in quanto erano tutti troppo occupati a cercare il rimedio per il “terrorismo ultras” che potrebbe mettere in crisi la nostra democrazia, magari coalizzandosi con Beppe Grillo o perfino con Storace.

venerdì 9 novembre 2007

LASCIATECI "VIVERE"

Marco Cedolin

Panem et circenses stavano alla base del consenso popolare nell’antica Roma decadente, dove i Veltroni dell’epoca organizzavano le notti bianche all’interno del colosseo e il palinsesto dei Berlusconi imperiali era rigorosamente “in diretta” spaziando dalle contese all’ultimo sangue fra gladiatori, al desco per le belve feroci che anziché paté e bocconcini venivano invitate ad addentare ben più succulenti schiavi in versione croccantini 3 X 2.
Panem et circenses è un motto che calza (o forse calzava) a pennello anche per la nostra società occidentale del turbocapitalismo, quella che se non sei trasgressivo non ti diverti e devi scegliere il modo più cool di trasgredire, magari iniziando con una striscia di coca, un jeans strappato da 300 euro o uno schermo al plasma con annesso home theatre acquistato a rate che termineranno nel 2012. Quella che “basta andare su Second Life per rifarti una vita come vuoi tu” salvo poi scoprire che il mondo virtuale altro non è che una replica fedele fin nei minimi particolari di quello reale, con annesso turbocapitalismo e multinazionali globalizzate, ragione per cui anche lì ti toccherà fare lo sfigato precario che non arriva a fine mese. Quella che in TV tutti piangono e piangi anche tu perché ti commuovi e poi tutti ridono e ridi anche tu perché “bisogna” divertirsi e il cast di una fiction diventa alla fine la tua famiglia, quella che non hai mai potuto costruire perché ti mancavano i soldi o il tempo o entrambi. Quella che fai di tutto per seguire il “grande sport” e ti dibatti fra parabole, decoder e schede prepagate, per poi scoprire che la competizione sportiva ormai la fanno schiere di avvocati nelle aule dei tribunali che si scontreranno sugli eventi truccati che tu hai visto in TV con il tuo decoder e l’unico elemento vero di tutta la rappresentazione erano i tuoi soldi fagocitati dalla scheda prepagata.

Anche panem et circenses ai giorni nostri sono entrati profondamente in crisi, il primo va centellinato perché ha ormai raggiunto prezzi da capogiro, il secondo rischia di non divertire più, perché con la pancia vuota l’intrattenimento ludico risulta poco efficace.
E allora siccome i cortei per chiedere il “panem” sono un retaggio del passato, troppo retrò e assai poco trendy, meglio una fiaccolata per pretendere il “circenses” come accaduto martedì 6 novembre a Como. Di fronte alla decisione da parte di Mediaset di epurare la fiction “Vivere” dai propri palinsesti, decretandone in questo modo l’eutanasia dopo 8 anni e circa 2000 puntate, un centinaio di persone accorse per assistere all’ultimo ciak, hanno srotolato un lungo striscione recante la scritta “Non chiudete Vivere” e sono partite in corteo fiaccole alla mano per convincere Confalonieri a desistere dal suo intento. Sempre durante questa settimana qualcosa di simile è accaduto anche negli Stati Uniti, dove il cast della fiction Gray’s Anatomy, unitamente a molti telespettatori, ha inscenato una manifestazione di protesta contro la soppressione del programma, con tanto di cartelli colorati e cori ritmati.

Toccate pure il “panem” ma non il “circenses” se volete conservare il consenso popolare, sembra il duro monito suggerito da queste vicende. Gli amanti delle fiction soppresse non sono certo pericolosi no global o giovani violenti che intendono mettere in crisi l’ordine sociale, ma se togli loro il “circenses” potrebbero iniziare a pensare al “panem” e la cosa si rivelerebbe assai più pericolosa.

martedì 6 novembre 2007

GRANDI OPERE: le alternative ci sono!

Intervista di Marianna Gualazzi a Marco Cedolin.

E sono “piccole”, a basso impatto ambientale ed a budget ridotto: perché, allora, non vengono prese in considerazione? - tratto da CONSAPEVOLE 12
In uscita a gennaio 2008 GRANDI OPERE - un libro di Marco Cedolin (Arianna Editrice)

Hai scritto un libro sulla TAV in Val di Susa e hai seguito la protesta degli abitanti della valle. Ora è in uscita il tuo nuovo libro, interamente dedicato alle grandi opere. Qual è stata la molla che ti ha spinto verso queste tematiche?
Quello delle grandi opere è un tema focale sul quale è necessario concentrare la nostra attenzione: con il declino della produzione industriale, iniziato nella seconda metà degli anni ’80, e l’avvento della delocalizzazione all’estero delle attività produttive, è cresciuto in maniera esponenziale l’interesse del sistema economico nei confronti di attività a basso contenuto tecnologico, in grado di movimentare enormi capitali, come la costruzione delle grandi opere. Questo pasaggio di risorse finanziarie da settori maggiormente impegnativi – ad alta competizione e ad elevato rischio d’impresa, quali quello industriale – in direzione di settori estremamente più remunerativi e praticamente privi di competizione quali quello delle grandi costruzioni, ha determinato il potenziamento degli strumenti necessari per portare avanti queste attività. Le macchine movimento terra, le frese, le talpe, sono cresciute a dismisura, nel costo e nella capacità di trasformare e cementificare porzioni sempre maggiori di territorio. La crescita dimensionale degli investimenti e degli strumenti ha determinato un sovradimensionamento dei progetti, ragione per cui le opere sono diventate sempre più grandi e costose, fino a staccarsi completamente dalle reali necessità delle comunità e dei territori, per rispondere unicamente alle necessità dell’economia: necessità legate alla loro costruzione e non al loro utilizzo.Il settore del “cemento e del tondino” connesso alle grandi opere è così diventato terra di conquista per i grandi potentati economici e finanziari, in quanto fonte di facile arricchimento a bassissimo rischio d’impresa. Nel bel mezzo di questo processo sono venuti a trovarsi proprio i cittadini ed i territori nei quali essi vivono, con la conseguenza che lo spazio vitale e la qualità della vita di ciascuno hanno iniziato a ridursi drasticamente.

Quale manipolazione nei confronti dei cittadini si nasconde dietro il meccanismo delle grandi opere?
Negli ultimi cinquant’anni la nostra società ha subito un mutamento radicale che ha conosciuto il proprio massimo nell’ultimo decennio. Contesti ritenuti un tempo pilastri imprescindibili della società, quali la famiglia, il lavoro, la comunità, sono diventati elementi sempre più incerti dell’esistenza. I ritmi sono frenetici, il tempo libero sempre più compresso, le occasioni di rapportarsi con il prossimo sempre più rare. Per la maggior parte delle persone, rinchiuse nel proprio microcosmo, la televisione e la frettolosa lettura di qualche quotidiano rappresentano la principale fonte di un’informazione spesso superficiale e frammentaria.In un contesto di questo genere è stato semplice, per chi gestisce i grandi interessi economici ed ha il monopolio dell’informazione, veicolare nell’immaginario collettivo un messaggio fuorviante: la necessità di costruire opere sempre più grandi in grado di aumentare la crescita economica, lo sviluppo, le opportunità di lavoro. Secondo una pratica che si è consolidata nel tempo, i governi, fidando sull’aiuto di esperti e giornalisti compiacenti, hanno sedotto il cittadino, come si farebbe con un bambino. Costruiremo il TAV perché così potrai viaggiare più velocemente, le merci arriveranno prima e ci saranno meno TIR ad inquinare sulle strade, costruiremo il megainceneritore perché così si eviteranno le discariche, costruiremo nuove gallerie per velocizzare il traffico, costruiremo immense dighe perché l’energia idroelettrica è pulita, e così via: ogni opera è stata giustificata attraverso il mito del progresso che crea benessere e prosperità.
Spesso si parla del fatto che le grandi opere sono antieconomiche. La legislazione che regolamenta questo tipo di progetti permette, anzi favorisce uno, sperpero di denaro inaudito. La classe politica, a livello trasversale senza escludere nessuno, è connivente con la classe imprenditoriale?In ambito di grandi opere la legislazione è stata costruita in maniera da essere funzionale ai grandi potentati economici e finanziari. La commistione fra pubblico e privato, la creazione dei general contractor, l’assoluta mancanza di una norma che pretenda accurati studi sui costi/benefici delle singole opere come prerogativa alla loro realizzazione, ne sono la dimostrazione. Quasi sempre i costi ed i tempi di realizzazione di una grande opera vengono pesantemente sottostimati, al fine di renderla “presentabile” e magari vincere la gara di appalto al ribasso. Poi in corso di realizzazione i tempi si allungano a dismisura ed i costi incrementano in maniera esponenziale fino al 500%, come è accaduto in Italia per alcune tratte TAV. Al contrario i benefici e il ritorno economico di una grande opera in fase di progetto sono sovrastimati spesso in maniera addirittura ridicola al fine di accreditarla come necessaria. Solamente quando l’opera è terminata ci si trova di fronte all’evidenza che i flussi di traffico reali sono 1/6 rispetto a quelli previsti, che il megainceneritore è una scelta fallimentare e può sopravvivere solo grazie agli incentivi statali, che il costo dell’energia prodotta attraverso una megadiga supera di 3 volte quello nazionale.

La classe politica, a livello trasversale senza escludere nessuno, è connivente con la classe imprenditoriale? Entrambe si favoriscono a vicenda? Attraverso quali meccanismi?
Nei gruppi imprenditoriali che gestiscono la costruzione delle grandi opere sono presenti interessi di ogni genere: dai maggiori istituti bancari ed assicurativi mondiali, alle industrie degli armamenti, ai colossi metalmeccanici, petroliferi, alimentari, farmaceutici.
La politica svolge un ruolo sussidiario, assecondando in maniera del tutto trasversale i grandi interessi, favorendo di fatto il trasferimento del denaro pubblico che viene direttamente dalle tasse dei cittadini nelle tasche dei grandi potentati e ricevendo in cambio emolumenti e prebende. La politica è il tramite attraverso il quale il potere economico e finanziario si rapporta con il cittadino. La sudditanza della politica rispetto ai grandi poteri è assolutamente trasversale e va oltre le divisioni tra destra e sinistra, funzionali solo alla conservazione del consenso: nella truffa del TAV 90 miliardi di euro del contribuente sono stati sprecati per la costruzione di un’infrastruttura sostanzialmente inutile, con la condivisione di tutte le forze politiche.

In una regione come l’Emilia Romagna i cittadini si stanno mobilitando contro il diffuso raddoppio e la costruzione, ex novo, di impianti di incenerimento dei rifiuti. In questa regione nel settore opera la Holding Hera. Quali sono le relazioni tra Hera il governo della regione?
Il Gruppo Hera è una multiutility a capitale misto pubblico/privato nata nel 2002 e quotata in borsa dal 2003 che ha incorporato le municipalizzate di Bologna, Ravenna, Forlì, Cesena, Rimini, Cesenatico, Faenza, Savignano, Imola, Lugo, Riccione, Ferrara e Modena. Si tratta di un colosso che spazia dalla gestione delle acque alla distribuzione dell’energia, allo smaltimento dei rifiuti, fino alla gestione dei servizi cittadini e dei servizi cimiteriali e funerari. Si colloca oggi al primo posto in Italia fra le multiutilities con un bacino di circa 2,5 milioni di abitanti e una copertura di circa il 70% del territorio dell’Emilia Romagna. Hera rappresenta l’esempio più evidente di come, attraverso la commistione fra pubblico e privato, vengano create delle aziende dalle potenzialità economicamente spaventose che, godendo dei favori della politica a tutti i livelli, accumulano enormi capitali e divengono monopolisti nella gestione dei servizi. Molte municipalizzate, soprattutto nel nord Italia, stanno seguendo questo esempio: è di qualche giorno fa la notizia della fusione fra la municipalizzata di Milano AEM e quella di Brescia ASM. La conseguenza di monopoli di questo genere, gestiti in maniera spregiudicata al fine di sfruttare le posizioni di privilegio, si traduce, per i cittadini, in un aumento dei costi, in una minore qualità dei servizi e nell’assoluta mancanza di attenzione per l’ambiente e la salute: lo dimostra la costruzione di nuovi inceneritori ed il raddoppio di quelli esistenti, messi in cantiere da Hera in Emilia Romagna.

Sul territorio nascono associazioni di protesta, comitati, si organizzano incontri, convegni e dibattiti. I cittadini dicono spesso no alle grandi opere. Ma alla protesta spesso non si associa la proposta o per lo meno viene taciuta dai media. Quali sono dunque le concrete strade alternative, a basso costo e a basso impatto ambientale, praticabili con successo? Potresti farci qualche esempio relativo alle grandi opere trattate nel tuo prossimo libro?
I cittadini stanno iniziando ad opporsi alle grandi opere perché si sentono stretti d’assedio dalla cementificazione indiscriminata, dall’eccessivo aumento delle infrastrutture, dalla massa di veleni di cui sono cosparsi i terreni ed è impregnata l’aria. Molto spesso prendono coscienza della realtà quasi per caso, vedendo nascere l’ennesimo cantiere dietro casa loro, apprendendo che dovranno vivere a 2 km da un inceneritore, trovando un qualche mostro di cemento al posto del boschetto dove erano soliti andare a passeggiare.I cittadini contestano le grandi opere perché le ritengono nocive e poco opportune e lo fanno sulla base di motivazioni di carattere economico ed ambientale. Le alternative ci sono, ma non vengono mai prese in considerazione: perché? Perché con le grandi opere non si vogliono risolvere problemi, ma ingrassare le tasche dei grandi potentati finanziari, economici e politici.Facciamo qualche esempio.I megainceneritori non risolvono alcun tipo di problema poiché trasformano semplicemente i rifiuti in un ammasso di particelle velenose fatto di nanopolveri, metalli pesanti, diossina e furani, facendoli scomparire alla nostra vista ma introducendoli dentro il nostro corpo attraverso l’inquinamento atmosferico e la catena alimentare, con conseguenze devastanti per la salute di noi tutti.
I megainceneritori annientano la raccolta differenziata: per mantenere le alte temperature di esercizio sono costretti a fagocitare enormi quantitativi di materiali riciclabili quali plastica, carta e cartone. I megainceneritori producono energia in maniera antieconomica, senza rispettare l’ambiente, ed emettendo nell’atmosfera quantitativi di CO2 doppi rispetto ad una centrale a gas naturale di eguale potenza.Le alternative all’incenerimento esistono già e sono enormemente meno impattanti e costose. Basterebbe impegnarsi per migliorare in quantità e qualità i volumi della raccolta differenziata e sottoporre la parte rimanente dei rifiuti al Trattamento Meccanico Biologico, per ritrovarsi con una massa di rifiuti dalle potenzialità scarsamente inquinanti non superiore al 15% del totale, da conferire nelle discariche per inerti che sono le meno costose e pericolose.Ma la raccolta differenziata ed il TMB non movimentano immensi capitali come invece fanno i costosissimi megainceneritori, per cui si continuerà ad incenerire avvelenando l’aria ed il suolo.
Il TAV non risolve alcun tipo di problema, poiché non risponde alle esigenze della stragrande maggioranza dei viaggiatori e delle aziende che intendano spedire le merci tramite ferrovia. L’alternativa al TAV consiste nel potenziare il sistema ferroviario esistente, dotandolo dei sistemi di sicurezza dei quali è in larga parte privo, raddoppiando i binari laddove si viaggia ancora a binario unico, offrendo un servizio decente ai pendolari che rappresentano l’80% dei viaggiatori, rinnovando il materiale rotabile che versa in condizioni disastrose, investendo nel personale che è quantitativamente insufficiente (in questo modo si creerebbe anche quell’occupazione che il TAV non è in grado di offrire) riorganizzando gli scali merci al fine di rendere efficiente e competitivo il trasporto delle merci su ferro. Tutte operazioni concrete che determinerebbero uno scarso impatto ambientale ed investimenti contenuti se raffrontati a quelli dispensati per la costruzione del TAV. Ma chi gestisce il potere preferisce una grande opera che movimenti nelle proprie tasche altrettanto grandi capitali, poco importa se l’ambiente ne uscirà devastato, i pendolari continueranno a vivere la loro via crucis quotidiana, le merci continueranno a transitare sui TIR e le ferrovie licenzieranno 10.000 lavoratori nei prossimi 3 anni.
Il MOSE si propone di risolvere il problema delle acque alte nella laguna veneta, a fronte di un’opera del costo di 4 miliardi di euro che deturperà in modo irreversibile l’intero ecosistema lagunare. Un gruppo di esperti nominato dal Comune di Venezia ha presentato svariati progetti in grado di ridurre il fenomeno delle alte maree attraverso operazioni reversibili e scarsamente impattanti, a fronte d’investimenti economici molto più modesti. Ma i potentati economici e finanziari non sono interessati agli investimenti economicamente modesti.Ogni grande opera ha delle alternative infinitamente meno costose, meno impattanti e praticabili con successo nell’immediato, ma il vero problema è costituito dal fatto che chi gestisce le scelte politiche ed economiche è interessato alle grandi opere unicamente in funzione del loro enorme costo e non praticherebbe mai strade alternative che comportino inferiori investimenti monetari.

Nel libro sostieni che il fascino delle grandi opere è anche e soprattutto psicologico: una vera e propria fissazione della nostra epoca. Come si può spiegare questo atteggiamento?
Viviamo in un’epoca in cui la grandezza è assurta a sinonimo di bellezza, di modernità, di progresso. Così come la quantità ha sostituito la qualità nel determinare la valenza di qualsiasi cosa. Gli ipermercati hanno soppiantato i negozi, le multisala i cinema, i grattacieli gli eleganti palazzi cittadini. Nell’industria, come nella finanza, si sono moltiplicate le fusioni e le incorporazioni finalizzate a costruire gruppi industriali e finanziari sempre più grandi e potenti. Tutto ciò che è piccolo ci viene presentato come brutto, anacronistico, superato. Il culto del grande e della quantità è entrato a far parte della nostra vita di tutti i giorni, quasi senza che ce ne rendessimo conto, ed oggi condiziona gran parte delle nostre scelte. Compriamo televisori e monitor per pc sempre più grandi, frigoriferi sempre più grandi, automobili sempre più grandi, cucine e divani sempre più grandi, box doccia sempre più spaziosi, armadi sempre più capienti per contenere maggiori quantità di vestiti di bassa qualità, case e garage sempre più grandi che ci permettano di stipare una quantità sempre maggiore di cose sempre più grandi.Le grandi opere si inseriscono in un contesto sociale che ama la grandezza: il cittadino è stato manipolato psichicamente affinché consideri la crescita dimensionale e quantitativa come il principale indicatore di benessere e sviluppo. Attraverso questo meccanismo i manipolatori sono riusciti a renderci felici di essere oggetto stesso della loro manipolazione, costringendoci a diventare complici entusiasti di un “progresso” che si rivela funzionale solamente ai loro interessi.In pratica ci ritroviamo ad ammirare plaudenti come bambini con lo sguardo trasognato la costruzione di opere sempre più faraoniche e costose, false dispensatrici di benessere e sviluppo, che vengono finanziate attraverso il nostro denaro, mentre la qualità della nostra vita continua a peggiorare, le opportunità di lavoro diminuiscono, i salari si assottigliano, la precarietà dilaga sempre più.


SONO TUTTI UN PROGRAMMA

Marco Cedolin

Si può amare Beppe Grillo oppure detestarlo, ma comunque la si pensi non si può negare che il V. Day dell’8 settembre scorso abbia percosso come una folgore sia il mondo politico che quello sindacale, innescando uno stato di fibrillazione senza paragoni. Tanto i partiti quanto i sindacati, per nulla turbati dagli strali del Grillo vendicatore, ma molto preoccupati dalla prospettiva di un’emorragia di voti e consensi, hanno tentato di reagire in qualche modo posti di fronte ad una novità tanto incomprensibile quanto inaccettabile.
Centinaia di migliaia d’italiani scesi in piazza a protestare, per la prima volta senza che un partito politico o un sindacato li avesse invitati a farlo.
Forse a causa del risentimento dovuto alla “lesa maestà”, o più probabilmente per porre rimedio al potenziale rischio di perdita della poltrona, partiti e sindacati si sono profusi in uno sforzo ciclopico che ha ingenerato un mese di ottobre dal clima politico tanto bizzarro, quanto neppure il global warming era finora riuscito a fare in campo meteorologico.
Obiettivo primario dell’operazione, legittimare in qualche maniera la propria esistenza e la bontà delle proprie scelte, attraverso un’illusione di partecipazione popolare che potesse porli al riparo da qualsiasi ragionevole critica.
Non è stato facile e le dinamiche della mistificazione hanno alcune volte rasentato il parossismo fino a scadere nel ridicolo, ma tutto sommato grazie alla cooperazione dei mentori della carta stampata e della TV si può affermare che la “terapia” abbia riscontrato un discreto successo.

I primi ad avere ricercato (o creato ad arte) un bagno di consenso popolare sono stati i sindacati confederati che hanno offerto una dimostrazione senza eguali di democrazia diretta, così diretta da avere indotto molti a pensare che quella direzione fosse volutamente imposta dall’alto, ma come sempre accade in questi casi si tratta certamente di male lingue. CGIL, CISL e UIL hanno indetto per il 9 e10 di ottobre un referendum avente per oggetto l’approvazione o il rifiuto del protocollo sul Welfare, da loro stessi sottoscritto oltre due mesi prima con il Governo e Confindustria.
Qualcuno avrebbe potuto considerare bizzarro che s’interpellassero i lavoratori in merito ad un accordo già firmato da tempo e ritenuto, come ribadito più volte, immodificabile, ma guai a sminuire una così grande consultazione democratica. Qualcuno (fra gli altri anche l’Onorevole Rizzo del PDCI) avrebbe potuto considerare non proprio corretto il fatto che oltre che nelle fabbriche si votasse praticamente dappertutto (anche in banchetti improvvisati nelle strade) senza alcun genere di controllo, facendo si che qualunque persona con molto tempo a disposizione potesse infilare nelle urne tante schede quante voleva, come ampiamente documentato attraverso molti filmati amatoriali.
Si tratta in fondo solamente di quisquilie, l’importante è stato il risultato finale dell’operazione, 5 milioni di votanti (o meglio di schede votate) il SI che ha stravinto all’80% come nelle previsioni e la trimurti sindacale stretta nell’abbraccio di milioni di lavoratori che legittimano un accordo impopolare e fortemente negativo che però diventa “intoccabile” in quanto democraticamente votato.

La seconda operazione mediatica, datata 13 ottobre, ha visto come protagonista un sempre più imbolsito Gianfranco Fini ed Alleanza Nazionale che hanno convocato a Roma 500.000 persone per protestare contro Romano Prodi, le tasse e la poca sicurezza. La manifestazione somigliava molto ad un revival sfocato e meno partecipato di quella dell’anno precedente contro la finanziaria, ma il risultato è stato comunque quello voluto. Dimostrare che i partiti di centrodestra sono comunque in grado di portare in piazza il “popolo delle libertà”, magari convogliando la protesta su pochi temi generalisti, magari senza alcuna proposta concreta che prescinda dal semplice attacco all’avversario, magari solo per coreografia, ma comunque in piazza, come e meglio dei seguaci di Beppe Grillo.

Le primarie del nuovo (nuovo?) Partito Democratico tenutesi il 14 ottobre hanno rappresentato lo stato dell’arte in fatto di mistificazione e costruzione di una realtà artefatta che sia funzionale a sancire decisioni già prese molto tempo prima seduti intorno ad un tavolo.
Walter Veltroni, l’uomo “nuovo” del panorama politico italiano che intende “sviluppare l’ambiente attraverso la crescita economica” e rappresenta meglio di chiunque altro il pensiero a stelle e strisce proposto come “made in Italy” è stato investito del titolo di leader del Partito Democratico (quello italiano) da un vero e proprio plebiscito popolare costruito anch’esso a tavolino.
Milioni di votanti a pagamento (beninteso erano loro a pagare un euro, non Veltroni che li pagava, almeno non tutti) hanno fatto code chilometriche attendendo per ore il proprio turno. Perché fossero tanti, ma proprio tanti, si è pensato bene di consentire il voto anche a coloro che nelle elezioni reali non ne hanno diritto e di evitare ogni controllo come nel caso del referendum sindacale. Alle 12 i promotori affermavano che si erano già recate a votare 800.000 persone, alle 17 i votanti erano diventati 1.500.000, dopo la conclusione della consultazione, alle 20, i votanti sono diventati per un qualche intervento magicale ben 3.500.000, il 75% dei quali ha entusiasticamente scelto Veltroni come proprio leader.
Numeri a parte, indispensabili per trasformare in successo una partecipazione popolare tutto sommato modesta, anche in questo caso il risultato ha mostrato una realtà virtuale nella quale i cittadini sono vicini al proprio partito, ne condividono le scelte a posteriori e partecipano alla vita politica scegliendo il proprio leader. Il tutto nell’alveo di una democrazia tanto virtuale quanto l’impianto stesso della commedia.

Ultimo atto quello di sabato 20 ottobre, forse il più controverso e per certi versi anche il più ridicolo. I partiti della cosiddetta sinistra radicale, non tutti perché i Verdi se ne sono tirati fuori, hanno convocato a Roma una manifestazione tanto oceanica nei numeri (chi dice 500.000 chi addirittura 1 milione di persone) quanto incomprensibile nell’assoluta incapacità da parte dei promotori di trasformarla in un qualcosa di senso compiuto.
Sicuramente si è trattato di una manifestazione della sinistra, ma questo è stato l’unico minimo comune denominatore della marcia. Molti si sono recati a Roma a manifestare contro l’operato del governo di Romano Prodi, molti altri a manifestare a favore del governo Prodi che però dovrebbe fare meglio e di più, moltissimi a protestare contro il precariato, altri a fare la conta per stabilire quale sia il patrimonio di partecipazione popolare per la futura “Cosa Rossa”, altri ancora a dire che Prodi deve iniziare a fare qualcosa di sinistra, dimenticando il fatto che Prodi è da sempre un democristiano e forse per questo fa il democristiano.
Sul palco e in mezzo alla gente, a riempire il vuoto lasciato dai Movimenti realmente attivi sul territorio (come il NO TAV e NO Dal Molin) che già in precedenza avevano affermato di avere altri programmi, si è salvato solamente l’anziano Ingrao, attorniato da molte personalità politiche che emergono soprattutto in ambiguità. Assenti i Ministri che hanno preferito defezionare, hanno tenuto banco i soliti Diliberto, Russo Spena e Giordano ormai abituati a combattere la precarietà e la guerra nelle piazze per poi sistematicamente avallarle quando si ritrovano seduti in Parlamento.
Un altro bagno di folla per ribadire che altri partiti politici possono contare sulla partecipazione popolare, come e meglio di Grillo.
Ma se davvero si voleva combattere la precarietà, perché non cogliere l’occasione per lanciare una raccolta firme finalizzata a promuovere un referendum per abrogare la legge Biagi? Probabilmente sarebbe stato politicamente scorretto e poco rispettoso verso Romano Prodi. Meglio sfilare senza un come e un perché, mette allegria e ci si ritrova in tanti.

LA PORCILAIA

Marco Cedolin

L’Italia di questi mesi ha il colore del fango, il fango spesso che sa di marcescente e ti si appiccica alle scarpe come cemento mentre lo calpesti e schizza sui tuoi pantaloni.
I mestieranti della politica e quelli dell’informazione grufolano come degli ossessi nei liquami da loro stessi creati e grugniscono senza posa, sviscerando discorsi che sanno di fango, esibendosi in litigi di fango e chiosando con i loro musi suini mentre promettono mirabilie ed effetti speciali fatti di fango, già secco.
Romano Prodi sembra il pupazzo di un luna park, guarda la telecamera come inebetito e ride, giurando che questo governo durerà, perché deve liberare il paese dal fango, mentre dietro di lui qualcuno fischia ed uno stuolo di giornalisti limacciosi tenta di ripulire dal fango la sua giacca di fango. Silvio Berlusconi simile ad una scultura materica di fango giura che questo governo non durerà, mentre sullo sfondo un suino ed il suo Calderoli passeggiano zampa nella zampa nel limo.
Gianni Riotta ed Eugenio Scalfari dentro lo studio di Rai uno strapieno di fango grugniscono imbufaliti, lasciando intendere che è tutta colpa dell’antipolitica e di Beppe Grillo.

Clemente Mastella è il più furente di tutti e paventa un linciaggio contro di lui, volto a trasformarlo in salumi e sanguinaccio. Tutti mi perseguitano, Crozza e Floris con Ballarò, la Forleo e De Magistris con le inchieste giudiziarie, Beppe Grillo e Di Pietro con il giustizialismo, la sinistra radicale che se la ride e più di tutti Santoro e Travaglio con Anno Zero che è una trasmissione che non ho visto, ma parlava di fango e per questa ragione mi ha offeso profondamente. Perciò via dalla Rai le trasmissioni che parlano di fango, via i magistrati che rimescolano nel fango, via i comici che mi lanciano addosso fango, la fanghiglia è un ambiente naturale tiepido e confortevole e nessuno me la porterà via. Berlusconi si dice pronto a giurare che Mastella durerà.

Walter Veltroni grufola con il muso basso come se il fango non esistesse, ha una risposta per tutto e per tutti. Lui è il paladino dei destrasinistri, l’ambasciatore dell’ambientalismo dei SI, il protettore della crescita verde. Vero e proprio ossimoro in giacca e cravatta, attraverso un nuovo partito che pratica la vecchia politica proverà a vendere agli angoli delle strade l’illusione del fango che non sporca, ma si tratta di un barbatrucco possibile solamente quando nel fango ci si è immersi fino al collo. Berlusconi giura che non ce la farà, sullo sfondo Gianfranco Fini grufola del suo partito, ma di quale pezzo?
I soloni dell’informazione, contornati da uno stuolo di giornalisti colti e rampanti, ci mettono in guardia dai pericoli dell’antipolitica che rischiano di minare in profondità i liquami democratici di questo paese, la colpa è di Beppe Grillo che da giovane si faceva pagare profumatamente per partecipare ai festival dell’Unità ed ora addenta la mano che l’ha cresciuto.

Romano Prodi stamani è venuto in visita a Torino, la città del Sindaco Chiamparino, quel geniaccio che afferma di sentirsi felice quando al mattino Onda Verde annuncia code e traffico bloccato nella tangenziale della sua città, perché questo significa che l’economia sta crescendo, dimostrando che anche il fango può dare alla testa senza neanche bisogno di una “stanza del buco”. Prodi è venuto a Torino per inaugurare la seconda parte della metropolitana cittadina ed ha trovato ad attenderlo le solite bordate di fischi che ormai lo accompagnano come la nuvoletta di fantozziana memoria, ha difeso Mastella affermando che la Rai produce trasmissioni cattive. Berlusconi ha esclamato “Io l’ho sempre detto, l’avete voluto riesumare quel Santoro che rimesta nel fango? Ed ora godetevelo e non provate a fare finta che non vi avessi avvertito”. Mentre sullo sfondo Casini borbotta che la colpa di tutto è di Beppe Grillo che ha insultato Marco Biagi e tutte le vittime del terrorismo e della carboneria, senza alcun rispetto per le famiglie che solo attraverso il precariato potranno costruirsi un futuro.

I leader della sinistra radicale hanno indetto il 20 ottobre una grande manifestazione di piazza per protestare contro il fango, la cui presenza immanente rischia di impaludare tutto il paese, facendo appello anche ai movimenti NO TAV e NO Dal Molin, senza accorgersi che in quel fango che la piazza ed i movimenti stanno già cercando in tutte le maniere di scrollarsi di dosso, i loro partiti grufolano da tempo che è una meraviglia. Anche il fango può dunque manifestare istinti suicidi, ma i sondaggisti sono inclini a pensare che la colpa sia da attribuire a Beppe Grillo, la cui proposta di creare liste civiche per le prossime elezioni rischierebbe di mettere in crisi proprio quei partiti della sinistra che manifesteranno il 20 ottobre insieme a pochi intimi. Berlusconi assicura che presto si andrà a votare e tutti voteranno per lui, sullo sfondo Bossi proclama la secessione del Nord e Mastella si chiede quanto guadagnino Santoro e Travaglio mentre lui deve pensare ai 7 milioni e mezzo di poveri italiani che attendono di essere miracolati dall’operato della sua persona.

Tommaso Padoa Schioppa invece è un taumaturgo al quale i miracoli riescono davvero bene, ma costruisce i castelli di fango nascosto in un recondito andito, poiché soffre di agorafobia e la piazza non sempre si è mostrata in grado di apprezzare appieno i risultati del suo operato. Pochi giorni fa presentando la sua nuova finanziaria (quella vecchia gli era già costata l’agorafobia) ha definito i giovani italiani dei “bamboccioni” che egli si propone di cacciare fuori dalla casa dei genitori nella quale restano pavidamente rintanati. Romano Prodi ha detto che la frase suona un po’ forte, molti altri gli hanno fatto il coro, va bene tirare il fango ma non negli occhi. I “bamboccioni” hanno ribattuto che è colpa della legge Biagi, ma i giornalisti sono stati pronti a ricordare che il terrorismo è sempre in agguato, guai a parlarne. Maroni si offerto di donare il suo nome alla legge in questione ma nessuno lo ha preso in considerazione, come si fa a leggere i nomi nel fango.

Quasi tutti continuano a parlare della “Casta”, soprattutto coloro che sono convinti di farne parte. Si ventila la riduzione del numero dei parlamentari, la riduzione degli stipendi dei parlamentari, la riduzione delle pensioni dei parlamentari, la riduzione delle province, dei comuni, delle comunità montane, dei privilegi e dei privilegiati e poi la riduzione della riduzione. Tutto inutile, non si tratta di una casta ma di una porcilaia ed il fango attecchisce alle vesti come cemento, non vi è modo di levarlo con un maquillage. Una porcilaia che grufola e grugnisce stizzita, mentre milioni d’italiani restano fuori ad aspettare che il fango si secchi e si possa finalmente fare pulizia.

ECOLOGIA PUBBLICITARIA

Marco Cedolin

L’ultimo rapporto IPCC concernente i cambiamenti climatici ha impietosamente messo in luce lo stato di grave malattia in cui versa il nostro pianeta, devastato pesantemente da oltre 50 anni di pratica sviluppista, passati ad inseguire il miraggio della crescita infinita. Non tutti gli scienziati sono concordi nel definire l’entità dell’effetto serra o nel determinare l’esatto ritmo di crescita delle temperature nei decenni a venire, ma al di là di ogni ragionevole dubbio si palesa l’evidenza che esiste un grosso problema al quale occorre porre rimedio in tempi brevi, prima che i processi degenerativi divengano irreversibili.
Sarebbe stato logico attendersi come prima reazione che venisse messo in discussione proprio quel modello di sviluppo ispirato alla crescita che ha ingenerato il problema, ma logica e raziocinio quasi sempre latitano quando ci si trova di fronte ai grandi interessi economici. Così i “sacerdoti del progresso” ormai impossibilitati a negare i risultati catastrofici del loro operato hanno intuito come anche il peggiore dei problemi possa diventare la migliore delle opportunità qualora gestito a proprio uso e consumo e quale occasione potrebbe essere migliore di questa per coniugare crescita dei consumi e crescita “ecologica” in un’ottica d’incremento del loro tornaconto?

La macchina pubblicitaria ed i pennivendoli di ogni razza e colore hanno immediatamente assimilato per osmosi l’importanza del business ecologico e la salvaguardia ambientale è ormai diventata il motivo principe usato ed abusato per sponsorizzare non solo prodotti e servizi ma anche provvedimenti legislativi e scelte politiche.
Un colosso petrolifero come l’ENI, responsabile di alcuni fra i più gravi casi di inquinamento ambientale nel nostro paese, si presenta in TV con uno spot che lo rende simile a un’associazione ambientalista e si prodiga per mezzo dell’amministratore delegato Paolo Scaroni nel redigere una lista di 24 “comportamenti virtuosi” da suggerire ai cittadini, quasi fossero loro i veri responsabili della catastrofica situazione attuale.
L’ENEL sui teleschermi e sulle pagine dei giornali si è trasformata in un vero e proprio pilastro della pratica ecologica, vanta meriti immaginari e dispensa consigli di ogni tipo al cittadino inquinatore, come farebbe una buona mamma con il figlioletto scapestrato.
Le case automobilistiche pubblicizzano automobili che nuotano come delfini, costruiscono rapporti simbiotici con la natura, germogliano come piante e si colorano come vasi di fiori.
Le banche e le assicurazioni si specchiano dentro a didascalie di prati verdi e cieli tersi, con bambini che corrono incontro ad un futuro bucolico e durante lo spot ci si sorprende a trattenere il fiato per la paura che da un momento all’altro si squarci la didascalia e faccia capolino la realtà rappresentata dal camino di un inceneritore.
Dalle pompe dei distributori fluiscono gasolio pulito e benzina così verde e profumata da fare invidia ad una foresta di conifere. L’acqua minerale sgorga fra montagne incontaminate, pronta ad arrivare in tavola per mezzo del teletrasporto, anziché dopo viaggi infiniti di centinaia di chilometri nel cassone dei TIR sotto il sole cocente. Il latte e la carne provengono da allevamenti dove le mucche pasteggiano allegramente su prati verde smeraldo, le merendine nascono fra campi di grano dorati con le spighe appena mosse dal vento, prodotti di ogni genere manifestano una valenza ecologica mai immaginata prima che contribuisce a renderli indispensabili per il bene dell’umanità.
Perfino le scuderie della Formula Uno si apprestano a proporsi come sponsor dell’ecologia, dipingendo sui propri bolidi distese oceaniche, prati verdeggianti e cieli blu cobalto solcati da bianchi cumuli di panna montata. I marchi che vendono prodotti per i capelli li sponsorizzano come una panacea all’inaridimento delle chiome conseguente all’effetto serra e le aziende di abbigliamento stanno iniziando a proporre collezioni “ecologiche” imperniate sull’uso di tessuti a basso impatto ambientale, quando non addirittura abiti che sono in grado di preservare chi li indossa dagli effetti deleteri dell’inquinamento sulla salute umana.

Anche la politica si è prontamente adeguata al nuovo trend, coniando ossimori tanto fascinosi quanto improbabili. Sviluppo sostenibile, chimica verde, megainceneritori puliti, ecologia industriale, economia solidale, globalizzazione dal volto umano, guerra pulita, crescita verde, sono solo alcune delle esternazioni prive di senso compiuto che infarciscono i discorsi degli uomini politici di ogni schieramento. In contiguità con il non sense delle parole anche nelle decisioni fattive, grandi opere ad alto impatto ambientale come il TAV, i megainceneritori, le centrali a carbone e turbogas, il Mose, vengono proposte dalla politica come interventi ecologicamente migliorativi.

Si percepisce nettamente la sensazione che quello della valenza ecologica sia soltanto un astuto escamotage usato per veicolare in maniera “virtuosa” quella crescita dei consumi che alla luce delle conclusioni degli scienziati sarebbe altrimenti improponibile. Nel nome dell’ecologia si sta dunque continuando a distruggere l’ambiente, ma lo si distrugge affermando che si sta tentando di salvarlo e per qualche decennio il business dovrebbe essere assicurato, poi si vedrà, sarà comunque sempre possibile addossare ogni colpa agli atteggiamenti dissennati dei cittadini e ricominciare daccapo, magari praticando la lottizzazione del sottosuolo, dove grazie alla tecnologia sarà probabilmente ancora possibile vivere in un’atmosfera controllata.

HANNO TRADITO?

Marco Cedolin

Molte volte si viene colti dalla tentazione di fingere che tutto quello che ci risulta sgradevole semplicemente non esista.
Ci sono stati comunisti che hanno trascorso decenni della loro vita leggendo solamente l'Unità, prendendo visione di una realtà irreale ma a loro gradita e ritenendo che tutti gli altri giornali fossero mendaci in quanto di realtà ne raccontavano altre che a loro non piacevano. Così hanno fatto fascisti leggendo solo il Secolo d'Italia, leghisti leggendo solo La Padania ecc.
In Valle di Susa la reazione dei cittadini di fronte a giornali e TV che raccontavano di accordi fra i sindaci ed il governo e vaticinavano di un nuovo TAV che stava per “partire” con la benedizione più o meno entusiasta delle amministrazioni locali, è stata una reazione di chiusura. La maggior parte dei Valsusini ha continuato a difendere con ostinazione la “buona fede” dei propri sindaci, attaccati dall’operato dei giornalisti che miravano a screditarli, fino ad arrivare al punto di affermare che qualunque fonte d’informazione stesse mentendo mentre avrebbero contato solo le parole che sarebbero uscite dalla bocca dei propri sindaci.
Quando quasi una settimana dopo il tavolo romano del 13 giugno i sindaci (o meglio il Presidente della Comunità Montana Bassa Valle di Susa Antonio Ferrentino proclamatosi unico amministratore deputato a parlare in vece di tutti gli altri) hanno finalmente parlato di fronte a 3000 persone riunite in assemblea popolare quelle parole non sono state convincenti. Troppi tentennamenti, troppo pressappochismo, troppi imbarazzi e nessuna presa di posizione contro il TAV. Quando in quella stessa Assemblea i cittadini hanno domandato nuove delibere comunali di contrarietà ad ogni progetto TAV, Antonio Ferrentino ha risposto che “ci sarebbero voluti tempi lunghi”. Quando i cittadini hanno chiesto di smentire le parole dei giornalisti ed il comunicato ufficiale del governo, Antonio Ferrentino ha chiuso la serata augurando a tutti la Buonanotte.

A distanza di qualche settimana, dopo la cacofonia mediatica e il criptico ermetismo degli amministratori locali credo si possa tentare di carpire almeno qualche briciola di verità, ma se si vuole avere un minimo di obiettività e rincorrere almeno un poco la realtà oggettiva occorre partire dal presupposto che non si può nascondere la testa sotto la sabbia ed è bene usare gli occhi e le orecchie anche quando quello che si vede e si sente non risulta piacevole ed in sintonia con le nostre aspirazioni.
Innanzitutto occorre sottolineare come nessun giornale possa aspirare a rappresentare il "verbo" o ergersi ad enunciatore della verità. Tutti i giornali "lavorano" su una serie di fatti oggettivi e ne danno una lettura soggettiva, talvolta di parte, talvolta strumentale, talvolta sensazionalistica, distorcendo e stravolgendo in parte i fatti che comunque nella stragrande maggioranza dei casi rimangono la base sulla quale il giornalista edifica la sua "costruzione". Se è profondamente sbagliato guardare ai giornali senza spirito critico ed assorbire acriticamente tutto ciò che si legge, lo è altrettanto fingere che le notizie riportate sui giornali semplicemente non esistano qualora non ci aggradino.

Gli amministratori della Valle di Susa e Ferrentino sono stati (sia pur con varie sfumature) parte della lotta NO TAV per un lungo periodo a cavallo dell'inverno caldo 2005 ed hanno contribuito nell'ambito del loro ruolo a far si che si riuscisse a vincere una battaglia difficilissima. Perchè una battaglia in realtà è stata vinta e l’hanno vinta tutti insieme l'8 dicembre quando cittadini ed amministratori sono riusciti senza usare la violenza a cacciare poliziotti, ruspe e cantieri fuori dalla Valle che era stata militarizzata.
I fattori che contribuirono a determinare questa sinergia furono molti, alcuni legati alla situazione politica, altri alle persone, altri ancora ad un determinato momento storico, ma si può affermare senza dubbio che si trattò di un sodalizio vincente.
Ciascuno dei valsusini vorrebbe che questa comunione d'intenti e condivisione di lotta potesse essere perpetuata all'infinito e continuare a rivelarsi una "carta vincente" ma non sempre basta volere qualcosa perché questo avvenga ed ostinarsi ad insistere anche di fronte all’evidenza dei fatti rischia di rivelarsi a lungo andare un atteggiamento autolesionista.

L’evidenza dei fatti dimostra in maniera incontrovertibile come le condizioni dell'inverno 2005 oggi non ci siano più e la realtà si manifesti molto lontana da quella di allora.
Oggi esiste un governo "amico" al quale molti amministratori sono chiamati a rispondere in maniera diversa rispetto al 2005. Il "caso" Val di Susa è andato molto al di là di quanto chiunque potesse immaginare, fino al punto di fare "scuola" in Italia contribuendo a creare decine di lotte paritetiche dal Nord al Sud dell'Italia, lotte che stanno seriamente mettendo in difficoltà tanto la classe politica quanto la consorteria del cemento e del tondino, lotte che i partiti intendono assolutamente sopire essendo diventato per loro impossibile governarle politicamente con l’ausilio della cosiddetta sinistra radicale che ha ormai perso gran parte del proprio credito presso le popolazioni.
Esistono per gli amministratori locali nuove priorità, nuove opportunità e di conseguenza nuove posizioni.

Personalmente non penso che Ferrentino e gli altri amministrazioni abbiano tradito o stiano per tradire la lotta NO TAV. Semplicemente sono dei politici e si comportano in funzione della realtà politica, cogliendo le migliori opportunità ed agendo di conseguenza.
Nell'inverno 2005 le migliori opportunità erano osteggiare il TAV, disquisire di democrazia partecipata e magari perfino di decrescita, mostrare con orgoglio i presidi e manifestarsi innovativi rispetto al resto della classe politica italiana che risultava ingessata e totalmente inadeguata ad interpretare il disagio dei cittadini.

Oggi non è più così, la democrazia partecipata se applicata risulta scomoda per qualunque amministratore, poiché diminuisce il suo potere. Il Movimento NO TAV era un’opportunità da corteggiare e vezzeggiare quando dava lustro e offriva visibilità mediatica, ma a lungo andare per un politico conviverci diventa scomodo, troppe spiegazioni da dare, troppe pretese, troppa voglia di costruire qualcosa di diverso.
La decrescita è bella qualora si tratti di riempirsi la bocca ed accumulare popolarità, ma quando invece occorre applicarla le cose cambiano, soprattutto se in fondo in fondo si è continuato a pensare che il partito ed il PIL vengano prima di tutto.
Opporsi al TAV fra i cittadini che lo chiedevano fermamente, dinanzi a un governo "nemico" che mandava i poliziotti a bastonare era l'unica reazione sensata, oltretutto politicamente pregnante, ma oggi che è arrivato un governo "amico" ed il TAV lo vogliono fare con la vaselina e le pacche sulle spalle, perseverare nell'opposizione sarebbe politicamente disdicevole e per nulla sensato.

Oggi non è più così, Ferrentino e gli amministratori non hanno venduto i cittadini che lottano contro il TAV ma mentre nel 2005 il Movimento NO TAV era per loro un'opportunità ed un valore aggiunto oggi non lo è più. Oggi quegli stessi cittadini rappresentano un problema, o meglio ancora "il problema".
Perché nella democrazia partecipata hanno creduto veramente e pretendono di contare qualcosa, perché nella decrescita hanno creduto veramente e non vogliono diventare un corridoio (5) di transito e soprattutto perché continuano a dire NO TAV anche oggi che sarebbe opportuno e politicamente corretto che non lo facessero.

Le loro priorità oggi sono cambiate e consistono nel preservare la salute del governo "amico" e decidere in quale buco infilarsi all'interno di quel "cantiere" che sta diventando il centrosinistra. I NO TAV non hanno nulla a che fare con queste cose, anzi sono un ostacolo e la loro vicinanza viene vissuta come stiamo vedendo chiaramente tutti i giorni quasi con fastidio.

Per vedere queste cose non occorre leggere i giornali, basta guardarsi intorno e prestare attenzione ai fatti oggettivi.
Guardare gli amministratori che sono andati a Roma il 13 giugno e non hanno ritenuto giusto, dopo tutti gli sforzi che migliaia di persone hanno fatto per anni, dire semplicemente NO al TAV, perché altrimenti c’era il rischio che cadesse il Governo.
Guardare gli amministratori che prendono le decisioni dentro alle Conferenze dei Sindaci rigorosamente a porte chiuse anziché nei consigli comunali.
Guardare gli amministratori che pochi giorni fa sono ritornati a Roma per la presentazione dei "quaderni" dell’Osservatorio Virano, mai mostrati e condivisi con la popolazione, e quando Enrico Letta ha chiesto loro se intendessero fare delle domande sono rimasti in silenzio come delle statue di sale, lasciando che gli unici a porgere qualche domanda al governo fossero i giornalisti.
Guardare l'ostilità con cui gli amministratori hanno reagito di fronte alla richiesta dei Comitati di esprimere delle semplici delibere di contrarietà al TAV, fino al punto di boicottare i Consigli Comunali che si apprestano a deliberare, facendo mancare il numero legale.
Guardare la maniera in cui vengono boicottate, perfino nel comune “simbolo” di Venaus quelle serate d’informazione che nel 2005 rappresentavano il fiore all’occhiello per tutte le amministrazioni valsusine.

Non occorre leggere i giornali per comprendere che gli amministratori hanno cessato già da un po’ di tempo di dire NO TAV e guardano con fastidio a chiunque continui ad opporsi in maniera intransigente all'Alta Velocità, guardano con fastidio alle bandiere, ai Comitati, ai cittadini che esprimono il proprio pensiero, ai presidi, alle serate d'informazione.
Gli amministratori sono dei politici e la maggior parte di loro appartiene o è apparentata con i partiti che stanno cementificando l'Italia e cospargendola d'inceneritori, partiti che giustificano qualunque devastazione con il paradigma della crescita e dello sviluppo, partiti che tagliano i fondi per le pensioni e li destinano ad acquistare cacciabombardieri, partiti che anziché la ricerca medica finanziano le missioni di guerra. Probabilmente i NO TAV valsusini, avendo avuto i sindaci al proprio fianco davanti alle barricate durante l’inverno 2005, hanno finito per mitizzarne la figura, fino a sperare che anche il loro impegno contro il TAV potesse rimanere costante nel tempo. In realtà il NO al TAV dei cittadini della Valsusa è oggi più forte che mai, perché loro combattono la truffa dell’alta velocità per difendere il proprio futuro e quello dei propri figli, mentre la maggior parte degli amministratori si sono ormai defilati in quanto appartengono ai partiti e vedono nella truffa del TAV l'opportunità di guadagni e prebende.

Tutti coloro che in Valle di Susa e a Torino lottano contro il TAV stanno ormai raccogliendo queste briciole di verità ed iniziando a trovare da soli quelle risposte che Antonio Ferrentino si è rifiutato di dare durante l’affollata assemblea popolare di Bussoleno. Lo stanno facendo senza isterismi di sorta, senza processi e soprattutto senza quella violenza che non ha mai fatto parte del bagaglio del Movimento NO TAV.
Da queste risposte la lotta contro il TAV uscirà probabilmente orfana di Antonio Ferrentino, che ormai solamente i giornali si ostinano a definire leader di coloro che non ne condividono più né le scelte né le posizioni, e di molti amministratori che come lui hanno scelto di stemperare il proprio NO all’alta velocità.
Non si tratta di un dramma e neppure di un successo del Governo Prodi o di Mario Virano che sembra ormai convinto di avere trovato la strada decisiva per arrivare alla costruzione dell’opera.
I NO TAV della Val di Susa hanno già dimostrato nel 2005 di saper reagire alle difficoltà trovando proprio in esse nuova forza e nuove motivazioni e degli amministratori sfiduciati dalla popolazione rappresentano delle tigri di carta che non saranno in grado d’incidere sulla situazione. Mario Virano ha fatto senza dubbio un ottimo lavoro addomesticando gli amministratori ma fino ad oggi non è riuscito a convincere un solo cittadino valsusino riguardo alla bontà del TAV ed è proprio con i cittadini che suo malgrado dovrà confrontarsi se intende costruire l’opera, perché gli amministratori cambiano ad ogni legislatura, mentre la popolazione è sempre la stessa, non ha bisogno di essere votata per rimanere in carica e continua a dire No al TAV a prescindere da quale sia il tracciato e da dove venga ubicato il tunnel di base.

UN DINOSAURO DI NOME MOSE

Marco Cedolin

Confidustria a più riprese rimbrotta contro la decisione del governo di sospendere le concessioni relative alle grandi opere non ancora cantierizzate, fra le quali alcune tratte TAV, lamentando il fatto che l’istituzione delle gare di appalto allontanerà nel tempo la partenza dei lavori. Il governo e tanta buona stampa scoprono improvvisamente ciò che in tanti ripetevamo da anni inascoltati, e cioè come le tratte TAV nostrane stiano costando mediamente tre volte più di quanto non accada negli altri paesi e 4 volte di più di quella che era la spesa preventivata. Mauro Moretti, Amministratore Delegato di RFI imputa il rialzo dei costi alle compensazioni di cui vengono fatte oggetto le voraci amministrazioni locali, dimenticando come solo grazie a questa sorta di “dispersione di denaro a pioggia” sia stato possibile indurre comuni e province a “chiudere entrambi gli occhi” sulla devastazione ambientale imposta ai loro territori.
Ma mentre si percepisce nettamente la sensazione che le nuove gare di appalto, spacciate come la panacea per tutti i mali, lungi dal risolvere il problema in qualche sua parte, si dimostreranno semplicemente l’ennesimo esempio di spoil system all’italiana, finalizzato alla raccolta di nuove prebende, le grandi opere già cantierizzate continuano a procedere regolarmente, anche quando si tratta di progetti senza senso che la logica avrebbe consigliato di “cestinare” senza alcuna esitazione.

E’ il caso del Mose i cui lavori devastanti vanno avanti celermente nella completa indifferenza del mondo politico, affinché si arrivi al più presto al fatidico punto di “non ritorno”.
Tutto ciò dopo che il 12 novembre 2006 il Consiglio dei Ministri ha approvato a maggioranza una relazione presentata dal Ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, nella quale sono stati respinti tutti i progetti alternativi presentati ed esaminati nelle precedenti riunioni tecniche, dando in questo modo via libera alla prosecuzione dei lavori che nel frattempo il governo si era comunque rifiutato d’interrompere anche solo temporaneamente.

Il Mose, come il TAV è una sorta di anacronistico dinosauro che nonostante le sue molteplici criticità e la natura obsoleta di un progetto “pensato” sul finire degli anni 80 è riuscito ad arrivare fino ai nostri giorni con la condivisione di tutti i governi che in quasi 20 anni si sono succeduti.
L’opera si propone di risolvere il grave problema delle acque alte che affligge Venezia e la sua laguna, attraverso una serie d’interventi invasivi e costosissimi del tutto inadeguati ad affrontare un fenomeno complesso e dalle cause composite come quello delle alte maree.
Nel corso dell’ultimo secolo il dislivello fra il suolo di Venezia e il livello del mare si è ridotto di circa 25 cm. facendo si che i disagi connessi all’acqua alta (allagamento di piazze, abitazioni ed esercizi commerciali) siano aumentati in maniera considerevole fino a mettere a repentaglio in propensione futura la stessa sopravvivenza della città.
L’intenso incremento dell’intensità e frequenza delle alte maree è quasi totalmente da imputarsi ad una serie d’interventi umani ispirati unicamente alla creazione del profitto, senza prestare alcuna attenzione ai delicati equilibri ambientali che caratterizzano la laguna. Gli esempi più eclatanti si possono riscontrare nel dissesto idrogeologico del territorio lagunare, indotto dall’approfondimento delle bocche di porto e dagli scavi dei canali portuali al fine di consentire il transito delle super petroliere, con la conseguenza di trasformare la laguna in un vero e proprio braccio di mare. Nella devastante serie di bonifiche che hanno sottratto il 30% dell’intera superficie lagunare all’espansione di marea, spesso per insediare stabilimenti industriali ed infrastrutture e nello sfruttamento indiscriminato delle acque di falda usate per alimentare e raffreddare i cicli produttivi del polo industriale di Porto Marghera.

Il Mose, contravvenendo apertamente ai criteri fondamentali della Legge Speciale per Venezia (reversibilità, gradualità, flessibilità e sperimentabilità) non tenta di porre rimedio alle cause del problema delle acque alte, così come invece fanno tutti i progetti alternativi, ma interviene semplicemente sul fenomeno, ostentando gli stessi atteggiamenti invasivi ed impattanti che il problema hanno contribuito ad ingenerarlo.
Il fulcro del sistema Mose sarà costituito da 79 paratoie d’acciaio pesanti circa 350 tonnellate e lunghe fino a 30 metri, che verranno posizionate alle bocche di porto, incernierate dentro a cassoni di calcestruzzo armato del peso di 12.500 tonnellate l’uno. Tali paratoie ripiene d’acqua e affiancate l’una all’altra in modo da creare una barriera, in condizione di riposo resteranno adagiate nelle loro strutture di alloggiamento senza sporgere al di sopra del fondale. Nel caso di maree superiori ai 110 cm. le paratoie verranno svuotate tramite l’immissione di aria compressa e si solleveranno fino ad emergere ruotando intorno all’asse delle cerniere, creando così una sorta di diga mobile in grado d’isolare temporaneamente la laguna dal mare.
Oltre alle paratoie il progetto comporterà l’installazione di 12.000 pali di cemento armato e di 5960 palancole metalliche lunghe fino a 28 metri, lo sbancamento dei fondali alle bocche di porto dragando circa 5.000.000 di m³ di materiale sedimentato attraverso centinaia di anni e la ricopertura degli stessi (al fine di proteggerli dall’erosione marina) con 8.575.000 tonnellate di pietrame proveniente da cave nazionali ed estere. Ci sarà spazio perfino per la costruzione di una vera e propria isola artificiale della lunghezza di 500 metri, destinata a fare da spalla per le barriere mobili e ad ospitare i generatori a gasolio di potenza assimilabile a quella di una centrale elettrica, indispensabili per la produzione dell’aria compressa.

Già attraverso la lettura di questi dati si può comprendere l’assurdo “gigantismo infrastrutturale” del Mose, destinato a tradursi inevitabilmente in un altissimo costo di costruzione, circa 4,3 miliardi di euro, di gestione, circa 60 milioni di euro l’anno e nei lunghissimi tempi che sarebbero necessari per portare a termine il progetto, circa 10 anni. Appare inoltre evidente come la messa in essere di opere così faraoniche e fortemente impattanti sull’ecosistema lagunare abbia per forza di cose carattere di assoluta irreversibilità.
Oltre alle criticità connaturate nella sua prerogativa di violentare in maniera irreversibile il territorio, il sistema Mose si presenta come un progetto di scarsa utilità nel preservare Venezia dal fenomeno delle acque alte, poiché intervenendo solo quando l’alta marea supera i 110 cm. rimedierebbe solo al 5% degli allagamenti che si verificano ogni anno. I dati statistici concernenti l’ultimo decennio indicano infatti che una struttura come quella del Mose si sarebbe attivata mediamente solamente tre volte l’anno, a fronte di oltre una cinquantina di casi annui di acque alte minori di 110 cm. che avrebbero continuato a creare danni e disagi nonostante la presenza dell’opera. Inoltre se nei prossimi decenni continuerà l’innalzamento del livello marino in conseguenza dell’effetto serra, come ampiamente previsto dagli scienziati, il Mose perderebbe anche la poca utilità residuale, diventando di fatto completamente inutilizzabile.

Se alla probabile scarsa o nulla utilità del progetto aggiungiamo i pericoli legati alla possibilità d’infiltrazioni di gas metano e anidride solforosa attraverso le solette dei manufatti in calcestruzzo, la pesante penalizzazione delle attività di pesca in laguna, i gravi intralci alla navigazione dei pescherecci che verranno a determinarsi, i danni al turismo indotti da almeno 10 anni di grandi cantieri, ecco che abbiamo il quadro generale di un’opera destinata a danneggiare tutti coloro che avrebbero dovuto trarne vantaggio, per compiacere invece un unico soggetto.
Tale soggetto è rappresentato dal Consorzio Venezia Nuova, un potente pool d’imprese che in qualità di General Contractor si pone come concessionario unico per gli studi, le progettazioni e la messa in essere dell’intero complesso d’infrastrutture che verranno finanziate interamente attraverso il denaro dei contribuenti.
All’interno del Consorzio Venezia Nuova possiamo ammirare quasi tutti i nomi di spicco dell’imprenditoria delle costruzioni che da decenni stanno accumulando immense fortune finanziarie attraverso la costruzione delle grandi infrastrutture in Italia e nel mondo e che a breve si spartiranno le nuove gare di appalto proposte dal governo, da Impregilo (vera e propria multinazionale del cemento e del tondino) ad Astaldi (altro colosso del settore) passando attraverso l’Impresa Costruzioni ing. E. Mantovani s.p.a. (monopolista delle costruzioni in veneto) e svariate società facenti parte dei gruppi IRI, ENI e Mazzi.

Ancora una volta, come nel caso dell’Alta Velocità ferroviaria, lo Stato invece di procedere al risanamento della laguna e delle ferrovie che versano in condizioni disastrose, preferisce destinare somme estremamente rilevanti (che i nostri conti pubblici non possono permettersi) nella costruzione di opere mastodontiche ed estremamente impattanti che anziché risolvere i problemi preesistenti aumenteranno l’indebitamento pubblico e ne creeranno di nuovi.
Ancora una volta l’interesse dei grandi gruppi di potere finanziario ed economico, incarnati dalla consorteria del cemento e del tondino, viene anteposto a quello della collettività, senza nessun rispetto per gli equilibri ambientali e per la salute del territorio.
Non a caso fra coloro che continuano e continueranno a combattere contro il Mose, oltre ai Comitati spontanei di cittadini confluiti nell’Assemblea Permanente NO Mose e alle associazioni ambientaliste, troviamo il Comune e la Provincia di Venezia, proprio coloro che il Mose si proporrebbe di “salvare”.

UNA VITA AD INTERIM

Marco Cedolin

Il Corriere della Sera e gli altri quotidiani stanno dando grande risalto all’ultimo rapporto dell’Eurispes concernente il quinquennio 2000/2005 le cui conclusioni si manifestano poco lusinghiere per il nostro paese.
I salari italiani in termini di potere di acquisto risultano essere fra i più bassi d’Europa, inferiori perfino a quelli della Grecia e superiori solo a quelli del Portogallo e questi dati stanno suscitando forbiti contraddittori fra economisti ed analisti di mercato che li interpretano nell’ottica di un’aumentata competitività delle imprese nostrane. Ci sarebbe molto da riflettere sulla reale valenza di tale competitività quando si tratta di provvedere al mantenimento di una famiglia, ma credo sia meglio soffermarci su quello che invece L’Eurispes non dice.
Purtroppo per larga parte dei lavoratori italiani (la maggior parte per quanto concerne i giovani) l’esiguità dei salari non è neppure il problema peggiore che si prospetta dinanzi a loro. La riforma Biagi, voluta dal governo Berlusconi e coccolata con amore da Romano Prodi ha reso infatti il concetto stesso di “salario” una chimera inarrivabile ai più.
La legge 30 venne presentata come un farmaco miracoloso in grado di coniugare una ritrovata competitività dell'imprenditoria nostrana, con il benessere dei lavoratori più flessibili e felici, il tutto attraverso un'iniezione di modernità assoluta che ci poneva ai vertici nel mondo per quanto concerne la materia. In realtà, essa nacque con lo scopo precipuo di regolamentare ed ampliare il sistema del lavoro in affitto già introdotto negli anni precedenti dal governo di sinistra, con la compiacenza del mondo sindacale ed imprenditoriale .
Il progetto mirava a sovvertire completamente il concetto stesso di lavoro così come lo si era inteso fino ad allora, sostituendo gli uffici di collocamento pubblici con fantomatiche “agenzie del lavoro”, organismi privati o privato sociali ai quali veniva data la possibilità di perseguire un profitto attraverso un sistema di gestione utilitaristica del lavoratore, assunto a tempo determinato dalle agenzie stesse e poi dato in affitto alle aziende.
La possibilità di agire in questo senso fu data alle agenzie interinali, ai sindacati, ai consulenti del lavoro ed alle università. Nell’ambito della riforma furono inseriti il “lavoro a progetto” con lo scopo di aggirare il minimo salariale di retribuzione oraria, il “lavoro occasionale” che non può durare più di un mese all’anno né ricevere un compenso superiore ai 5000 euro, il “contratto intermittente” ed il “lavoro a coppia” nell’ambito del quale due lavoratori sono costretti a dividersi un misero salario.
Oggi possiamo affermare con sicurezza che la rivoluzione del mercato lavoro da molti ritenuta indispensabile, nell'ambito della quale la riforma Biagi ha dato un corposo contributo, è andata ben al di là di quanto potessero supporre gli stessi sostenitori della flessibilità esasperata.
In realtà più che di un mercato nell'accezione propria del termine (dove s'incontrano chi compra e chi vende) si tratta di una sorta di bazar, variopinto e colorato, all'interno del quale tutti tentano di vendere qualcosa, ma ben pochi sembrano disporre dei soldi necessari all'acquisto, nonostante i prezzi siano da saldo di fine stagione.
Sono nate come funghi le agenzie interinali, con un tasso di proliferazione sconosciuto nel regno vegetale.
Le agenzie interinali, che attecchiscono come zecche sulle spalle ammorbidite dai maglioncini di cachemire degli imprenditori e su quelle ricoperte da indumenti molto meno chic della massa sempre più imponente di coloro che sono alla disperata ricerca di un'occupazione. Le agenzie interinali, piccole nello spirito grandi nei numeri, essendo esse ormai parecchie centinaia, sanguisughe alle quali è stato permesso di monopolizzare ogni centimetro quadrato delle pubblicazioni, cartacee e non, dedicate alla ricerca lavoro.
Le agenzie interinali risultano di proprietà dei grandi gruppi bancari, assicurativi ed industriali, delle associazioni sindacali quali Cgil Cisl e Uil e di quelle appartenenti al mondo cattolico come le Acli. Si tratta di un panorama quanto mai eterogeneo, accomunato nel perseguire facili guadagni ai quali aggiungere un controllo sempre più diretto sulle prospettive di quelle persone che oggi si ama definire "risorse umane" quasi si trattasse di semplici oggetti di consumo da usare e poi cestinare allorquando non risulta più remunerativo il loro sfruttamento.
Le agenzie interinali possiedono uffici eleganti, quasi sempre nel centro delle città, hanno nomi accattivanti, spesso parlano inglese, talvolta promettono molto, alcune cercano d'ispirare fiducia, altre sprizzano ottimismo da tutti i pori.
Si passa dalla macabra aggressività di "Heads Hunters" alla quasi monastica e rassicurante " Opera Labori" dalla bonaria e comprensiva "Umana" all'avveniristica "Space Work". Per chi ama l'iperattività e la persegue come traguardo di vita la scelta risulta ampia ed assai variegata. Si può scegliere fra l'anglosassone "Work & Work" e l'italianissima "Lavoropiù" la stakanovista "Obiettivo Lavoro" e la "Start" che se rappresenta una partenza viene voglia di mettersi le mani nei capelli immaginando quale possa essere il punto di arrivo.
Si attraversa l'aperto maschilismo di "Men at Work" e "Manpower" il pacato comunitarismo di "Team Work" e la sublimazione della filosofia Unieuro di "GEVI (generazione vincente)" che non si trattasse di quella del 68 lo si era in fondo capito subito.
Alcune levano subito dal capo dell'aspirante risorsa ogni cattiva illusione che possa per errore albergarvi. "Ad Interim" e se con il latino avete qualche difficoltà di traduzione perché a scuola stavate sempre a filosofeggiare con la vicina di banco "A Tempo" che più chiaro di così non si potrebbe dirlo. Se poi amate espandere i vostri confini c'è "Eurointerim" per sottolineare il fatto che le disgrazie non sono esclusivo appannaggio di casa nostra.
Nel caso qualcuno avesse ancora degli irragionevoli dubbi può contattare "Quandoccorre Interinale" che chiarisce in maniera oltremodo esaustiva il concetto che lavorerai finché ci servi e non un giorno di più.
Per tornare alle reminescenze intelletualoidi da liceo classico c'è "Flessolabor" nel qual caso è severamente vietato togliere la prima l.
"Sinterim", "Tempor " e "Temporary" rendono perfettamente l'idea della precarietà di qualcosa che sta già per finire pur non essendo ancora neppure iniziato. Ma c'è anche il messaggio rassicurante di "Easy Job" che ti dice che non è poi così difficile ed in fondo in fondo a sopravvivere qualche mese ce la puoi fare, quello complice che ti strizza l'occhio di "Lavoro Mio" una porta spalancata verso il futuro puoi trovarla da "Openjob" ed i fans di Eta Beta possono deliziarsi con la lampadina di "Idea Lavoro". Quanto mai italiana e quasi simile ad uno slogan del ventennio "Italia Lavora" a singhiozzo e con stipendi da fame aggiungerei.
Proviamo ora ad addentrarci nelle bacheche delle agenzie interinali, quelle fisicamente appese alle vetrine delle stesse, quelle stampate sulle pubblicazioni cartacee e quelle virtuali che compaiono sui loro siti internet.
Scopriamo che c'è una grossa richiesta di "Dialogatori" ma ci sfugge quale possa essere l'esatta mansione degli stessi e poi viene richiesta un'età massima di 25 anni e comprovata esperienza nel campo, che trattandosi di dialogo credo appartenga ad ogni essere umano che non abbia avuto la sventura di nascere muto. Si richiede un "Collaboratore polivalente" massimo 30 anni con esperienza (nella collaborazione o nella polivalenza?) per mesi 1.
Si ricercano 40, avete letto bene, 40 in onore all'abbondanza, "Operatori di call center outbound" che tradotto in linguaggio volgare significa esecutori di proposte telefoniche di offerte commerciali, ma scopriamo approfondendo l'argomento che la paga di 300 euro mensili copre a malapena i costi di viaggio e più che di un salario si tratta di un rimborso spese. E' richiesto un "magazziniere" ma l'entusiasmo per avere finalmente trovato un lavoro normale viene subito stemperato dal fatto che il magazziniere con contratto di 1 mese deve possedere conoscenza dell'inglese, diploma, esperienza ed avere massimo 25 anni.
Dopo aver attraversato la richiesta di 5 "Hostess di cassa" bella presenza massimo 25 anni, contratto di mesi due, un "Operatore cuoco per servizi educativi" due "Mulettisti con esperienza su muletto elettrico" uno "Sbavatore" e 5 " Carropontisti" ci soffermiamo sulla richiesta di uno " Specialist risk management" con contratto di mesi tre, è richiesta la laurea, ottima conoscenza inglese e tedesco, esperienza quinquennale nel ruolo, massimo 30 anni e ci domandiamo per quale arcana ragione un siffatto ragazzo prodigio dovrebbe inseguire un'occupazione precaria trimestrale.
Troviamo anche richiesta di un "Life sales manager bankinsurance" e 3 "Business solution aggregator" ma la domanda di "1+1 a.d.e.s.f/o.s.s." c'induce a desistere da ogni ulteriore contatto con il mondo dell'interinale.
In realtà cercare un lavoro tramite le bacheche (virtuali o non) delle agenzie interinali, così come una volta lo si cercava sul giornale è impresa impossibile al limite dell'autolesionismo. Per avere una minima speranza, sempre che si abbia meno di 35 anni, occorre iscriversi presso le agenzie stesse, presentare loro il proprio curriculum, sperando sia il più possibile specialistico e comprenda dei mestieri ancora in voga, magari avere qualche piccola raccomandazione di amici o parenti presso il personale dell'agenzia stessa o meglio ancora presso qualche sindacato che farà da intermediario.
Poi occorre aspettare, accettare di perdere il proprio tempo seguendo gli inutili corsi di formazione ai quali l'agenzia ci consiglierà caldamente di partecipare anche se non hanno nulla a che fare con il nostro percorso lavorativo e che generalmente si svolgono nelle sue sedi, indi accettare il primo lavoro che l'agenzia propone, anche se la sede dello stesso risulta molto lontana da casa nostra e le spese di viaggio si porteranno via buona parte del misero salario, anche se si tratta di un lavoro per il quale non siamo portati. In caso contrario l'agenzia ci depennerà e non riceveremo più telefonate.
Concludendo questa riflessione il mondo del lavoro che troviamo intorno a noi risulta estremamente precarizzato e ricco di contraddizioni. La maggior parte della richiesta si concentra o su mansioni estremamente specialistiche per le quali occorre specifica esperienza o sui lavori di call center il più delle volte sottopagati e con richieste di disponibilità orarie al limite della decenza. L'età massima per aspirare a lavorare si sta livellando sempre più verso il basso, tagliando fuori una grande fascia di lavoratori e la prospettiva di occupazione è mediamente intorno ai 3 mesi.
La richiesta di requisiti per il candidato continua ad aumentare in maniera esponenziale fino alla pretesa del diploma e della conoscenza della lingua inglese nel caso di un operaio generico, di comprovate esperienze triennali per giovani massimo venticinquenni. La laurea, l’età inferiore ai 30 anni ed un’esperienza pluriennale nel ruolo sono diventate ormai prerogative di qualunque posizione appena superiore a quella impiegatizia.
La quasi totalità dei giovani e di coloro che hanno perso un lavoro a tempo indeterminato o si sono visti costretti dal mercato a cessare la propria attività professionale sono oggi costretti a rivolgersi alla fiera dell'interinale, ma con quali prospettive
Innanzitutto quella di non potere mantenere né se stessi né un'eventuale famiglia, poiché purtroppo ogni persona necessita di mangiare tutti i giorni e non ad interim, e non può pagare l'affitto o il mutuo 3 mesi si e 3 no ed allo stesso modo le bollette ed ogni altra spesa fissa che gli compete. In secondo luogo chi lavora temporaneamente non può neppure fruire del credito al consumo per il quale banche e finanziarie richiedono la busta paga di un lavoro a tempo indeterminato. Per non parlare del percorso pensionistico che procedendo ad intermittenza costringe il lavoratore a pagare dei contributi, senza avere la minima speranza che essi un giorno si tradurranno in pensione.
Era davvero necessario tutto ciò? Quali benefici potrà mai portare al paese immolare ogni giorno che passa un numero maggiore d'italiani, sull'altare di una flessibilità esasperata che non ha alcuna ragione d'essere, condannandoli a vivere un presente da inferno, con la prospettiva di dover costruire il proprio futuro sulle sabbie mobili? L'impressione palpabile è che attraverso la riforma Biagi si sia dato il colpo di grazia ad un sistema lavoro che versava già in una grave crisi ed occorra porre rimedio ad una situazione che sta degenerando, creando nuova povertà e togliendo ogni potere d'acquisto e talvolta di sopravvivenza ad una larga fascia della popolazione.
La sensazione è che di un problema così grande e complesso nessuno purtroppo abbia politicamente intenzione di farsi carico. Il centro sinistra ed il mondo sindacale sono in realtà stati i primi ad aprire le porte a questa sorta di legalizzazione del caporalato e non mancano di trarre sontuosi profitti dalla situazione attuale. Il centro destra resta attaccato come un geco alla propria “vocazione imprenditoriale” e tutti quanti prendono ad esmpio i deliri onirici dell’Istat che è riuscita a rilevare in Italia una diminuzione della disoccupazione, mentre in realtà con l’eutanasia degli uffici di collocamento e la proliferazione dei contratti a termine è diventato assolutamente impossibile comporre una statistica realistica dell’indice di occupazione.
Tutto ciò accade mentre la gente comune, i lavoratori, i giovani continuano a vivere il dramma che attanaglia il loro quotidiano, un dramma che giorno dopo giorno li sta trasformando in persone ad interim le quali rischiano di perdere anche la propria dignità, oltre a quel salario che l’Eurispes ci ricorda essere fra i più bassi d’Europa.