mercoledì 27 agosto 2008

LA RIVISTA DEGLI INGEGNERI

Marco Cedolin

Un amico, di quelli che hanno pochissimo rispetto per lo stato di salute del mio fegato, mi ha inoltrato gentilmente una copia dell’ultimo numero 345 di luglio della rivista “L’ingegnere italiano”, rivista ufficiale dell’Ordine degli ingegneri che arriva nelle case di 200.000 professionisti iscritti all’albo, scaricabile anche dal sito. www.tuttoingegnere.it
Le “perle” degne di richiamare l’attenzione, anche di uno scrittore dalle limitatissime competenze tecniche come il sottoscritto sono molte, così come molta è la disinformazione dispensata a piene mani ostentando estrema generosità.
Ne ho scelte due, con l’intento di essere sintetico e non tediare troppo il lettore, si tratta di uno sconcertante articolo che compare a pagina 2, avente per oggetto le grandi opere e di una suggestiva intervista al ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo dalla quale si evince con estrema chiarezza quale sia il grado di competenza del personaggio per quanto concerne i temi ambientali che si presume dovrebbero costituire il fulcro intorno al quale opera il suo ministero.

Nell’articolo sulle grandi opere che si richiama ai temi emersi nel 5° forum di “edilizia e territorio” che ha fatto il punto sulle grandi opere, si citano parole del Sottosegretario alle infrastrutture Roberto Castelli che dopo avere ribadito la priorità della realizzazione dei corridoi I e V per inserire l’Italia nella competitività internazionale, esterna il convincimento secondo il quale “le merci via nave per arrivare dalla Cina all’Europa impieghino mediamente tre settimane, mentre in treno potrebbero giungere in una settimana, fatto che cambierebbe il valore del business”, aggiungendo poi che “mentre la Bundesbank starebbe già progettando l’asse Berlino – Pechino, l’Italia rischierebbe l’estromissione dai traffici internazionali, nel caso entro luglio non ci fossero segnali chiari e rischiassero di decadere i finanziamenti europei”.
A suffragare le parole di Castelli, al fine di non farle restare dei vuoti slogan, nemmeno l’ombra di un dato, nessuno studio che metta in evidenza quale rilevanza abbia la velocità del mezzo di trasporto sul computo del tempo complessivo del servizio di trasporto delle merci, nessun ragguaglio riguardo a quale linea ferroviaria dovrebbe servire allo scopo di trasportare via treno le merci dalla Cina all’Italia, nessun dato concernente i costi di una simile operazione, nessun confronto fra la spesa del trasporto via nave e quella di questo futuribile servizio su rotaia, nessuna ragione umanamente comprensibile che dimostri la necessità di investimenti miliardari di denaro pubblico per tentare di fare arrivare i prodotti cinesi in Italia più in fretta.
L’articolo continua poi offrendo le esternazioni dell’Amministratore delegato delle FS Moretti che loda l’estensione della legge obiettivo e dichiara che l’alta velocità “valorizza il patrimonio immobiliare locale”, constatazione che purtroppo alligna solamente all’interno del suo immaginario dal momento che innumerevoli studi stanno a dimostrare come infrastrutture ambientalmente impattanti quali il TAV determinino l’effetto Bronx che riduce i territori a corridoi di transito fortemente deprezzati anche dal punto di vista del valore immobiliare.
C’è spazio anche per le esternazioni del ministro delle Infrastrutture Matteoli che si dice pronto ad accogliere le esigenze delle comunità locali, ma solo blindando il confronto con la priorità del fare comunque l’infrastruttura, denotando un’apertura al dialogo veramente commovente che raggiunge il proprio acme nella constatazione che in Val di Susa i sindaci sarebbero disposti ad accettare il TAV in cambio di maggiori servizi locali. Peccato Matteoli e l’articolo in oggetto non si sentano in dovere d’informare gli ingegneri riguardo al fatto che in Val di Susa la stragrande maggioranza dei cittadini continua ad essere contraria all’alta velocità come e più di prima del confronto, che in realtà non c’è mai stato avendo coinvolto esclusivamente i sindaci che si sono guardati bene dal condividere alcunché con la popolazione.

Il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo intervistata in merito alle fonti energetiche rinnovabili afferma che “l’Italia è il Paese del sole e del vento in abbondanza, ma magari ha poca superficie per potere sfruttare appieno queste risorse”. Probabilmente il ministro pensa che lo sfruttamento dell’energia solare ed eolica possa produrre risultati solamente attraverso distese infinite di pannelli solari o torri eoliche, ignorando completamente che i risultati migliori in termini di rendimento si ottengono con i piccoli impianti di autoproduzione per i quali la superficie italiana è più che sufficiente.
Il ministro asserisce poi che “il nucleare è una scelta quasi obbligata nel momento in cui i ritardi accumulati negli anni rischiano di portare l’Italia alla paralisi energetica e produttiva con tutte le ricadute sulla vita quotidiana dei cittadini”. Nessuno evidentemente l’ha informata, forse dopo averla letta lo faranno gli ingegneri, del fatto che l’Italia secondo le sue parole prossima alla paralisi energetica sta apprestandosi a diventare il maggiore hub europeo nella distribuzione del gas, così come nessuno l’ha informata del fatto che le centrali nucleari determinano pesanti ricadute dal punto di vista ambientale ed è soprattutto di quegli impatti che lei in qualità di ministro dovrebbe occuparsi.
Imbeccata poi dall’intervistatore che mette in evidenza come circa il 20% del territorio nazionale sia destinato all’uso di parco con il sostanziale blocco di ogni infrastruttura, la Prestigiacomo si rammarica di questa realtà ed afferma che “l’eliminazione dell’uomo e delle sue attività da intere porzioni di territorio le sembra un impoverimento di quello stesso territorio”. Singolare il fatto che il ministro dell’Ambiente riduca l’ambito dell’attività umana alla sola costruzione d’infrastrutture cementizie e non riesca ad immaginare la possibile valorizzazione delle aree adibite a parco magari in chiave turistica, anziché attraverso l’edificazione di gallerie e viadotti che ben lungi dall’arricchire un territorio generalmente contribuiscono a distruggerlo.
L’ultima domanda è sulle problematiche concernenti i rifiuti, al riguardo la Prestigiacomo tenta di arrampicarsi sugli specchi profondendosi in esercizi dialettici privi di costrutto, parla di riciclo, di ambiente sostenibile, di ciclo dei rifiuti economicamente virtuoso, di posti di lavoro, di ritardo più amministrativo che tecnologico. Non offre un solo dato, non tratteggia neppure un programma di gestione della spazzatura che possegga un minimo di coerenza e soprattutto dimentica di menzionare la necessità di ridurre la produzione di rifiuti, come non solo la UE ma anche il semplice buon senso c’impongono di fare al più presto.
Dopo avere letto l’intervista mi assale il dubbio che in fondo la Prestigiacomo pensi di essere il ministro delle infrastrutture, ma allora all’ambiente chi ci penserà, dal momento che Matteoli non sembra propenso a ripetere l’esperienza ed è troppo impegnato a blindare i confronti con le popolazioni?

Se questa è la qualità dell’informazione che viene dispensata ad un’elite di cultura superiore alla media quali sono gli iscritti all’Ordine degli ingegneri, non oso veramente pensare cosa ci ritroveremo ben presto a leggere noi comuni mortali che agli occhi del circo mediatico non siamo in grado di distinguere la differenza esistente fra un parco ed un’infrastruttura per i treni ad alta velocità, veniamo destinati a confronti blindati e desideriamo ricevere dalla Cina sempre un maggior numero di prodotti nel minore tempo possibile, pur non essendo consci di avere questa aspirazione.

lunedì 25 agosto 2008

UNA VITA A CREDITO

Marco Cedolin

Secondo i dati resi pubblici dalla Cgia di Mestre l’indebitamento delle famiglie italiane dal momento dell’introduzione dell’euro è praticamente raddoppiato, avendo raggiunto a dicembre 2007 una media di 15.765 euro a famiglia su base nazionale, con punte che superano i 21.000 euro nelle grandi aree metropolitane come Roma e Milano, facendo registrare una crescita del 93,28% rispetto al 2002. Uno studio precedente della stessa Cgia aveva evidenziato come già nel 2006 il 78% delle famiglie italiane non fosse riuscito più a risparmiare trovandosi anzi costretto a ridurre i propri consumi per riuscire ad arrivare alla fine del mese, quantificando in circa 500.000 le famiglie italiane sovraindebitate o sotto usura.

Le famiglie italiane stanno perciò continuando ad indebitarsi sempre più, anche se la situazione risulta per certi versi meno drammatica rispetto agli Stati Uniti dove il debito medio delle famiglie ha ormai superato gli 84.000 euro, ma il peggiore campanello di allarme arriva dall’analisi della natura dell’indebitamento. In Italia le ragioni per le quali si domanda denaro a prestito sono infatti costituite sempre meno da investimenti a lungo o medio termine quali mutui per l’acquisto della casa o da crediti finalizzati ad acquistare beni di consumo dal costo estremamente elevato come autovetture o componenti d’arredo, e sempre più dalla cessione del quinto dello stipendio, da prestiti non finalizzati come le carte di credito revolving o da prestiti finalizzati all’acquisto di beni e servizi che negli anni passati risultavano voci marginali nell’ambito dei finanziamenti, quali viaggi, spese mediche, palestre, piccoli elettrodomestici e beni di consumo dal costo relativamente basso. Pur in una situazione di pesante riduzione dei consumi, dai dati relativi al 2007 emerge infatti l’estrema vivacità del credito al consumo, cresciuto dell’11,3% (+ 12,8% per quanto riguarda la cessione del quinto dello stipendio) contro l’8,7% del mercato dei mutui, arrivando a sfiorare il 20% dell’indebitamento totale per una cifra di circa 100 miliardi di euro.

Il ricorso al credito da parte delle famiglie italiane, il cui indebitamento medio ha ormai superato il 50% del reddito disponibile, sta pertanto continuando a crescere, pur alla luce della vistosa contrazione dei consumi, risultando sempre più indirizzato a contenere, almeno in parte, la progressiva perdita del potere di acquisto di salari e pensioni. Sempre più spesso ci si indebita per riuscire a fare la spesa l’ultima settimana del mese, per comprare i libri di scuola ai figli, per andare comunque in vacanza una settimana, per non rinunciare alla palestra o ad una cena con gli amici, per riparare l’auto, per fare tutte quelle cose che fino a qualche anno fa rientravano nell’ambito della capacità di spesa di una famiglia dal tenore di vita normale ed ora necessitano di un accesso al credito. Sempre più spesso ci si indebita per aiutare economicamente i figli ormai in età adulta che non riescono a trovare lavoro, tanto che stanno crescendo in maniera esponenziale le formule di finanziamento orientate alla categoria dei pensionati e destinate a questo scopo. Ci si indebita per allontanare la consapevolezza del fatto che si sta diventando sempre più poveri, più infelici, più indebitati e più ricattabili, perché proprio sulla libertà di scelta finisce per ripercuotersi il costo più grave di una vita a credito.

venerdì 22 agosto 2008

Parte il rigassificatore di Rovigo

Marco Cedolin

Sono ormai note da tempo le ambizioni della classe dirigente del nostro Paese, intenzionata a trasformare l’Italia in un vero e proprio “hub” nella distribuzione del gas a livello europeo. Proprio per raggiungere questo scopo si susseguono uno dopo l’altro colossali progetti infrastrutturali finalizzati all’importazione di enormi quantitativi di gas che travalicano di gran lunga il fabbisogno nazionale.
Mentre è in dirittura di arrivo il potenziamento del gasdotto algerino Ttpc che trasporterà 6,5 miliardi di metri cubi di gas in più l’anno, l’ENI ha già iniziato il potenziamento del gasdotto Tag che trasporta in Austria il metano estratto dai giacimenti siberiani, per consentire il trasporto aggiuntivo di 3,2 miliardi di metri cubi annui. Entro la fine del 2012 la società Galsi s.p.a. della quale fanno parte Edison, Enel ed Hera, dovrebbe terminare la costruzione di una nuova pipeline di 2280 km che via Sardegna trasporterà annualmente 8,5 miliardi di metri cubi di metano aggiuntivo dall’Algeria a Piombino, in Toscana, il cui tratto off shore risulterà il più profondo al mondo raggiungendo la profondità di 2.880 metri
Nel corso del 2013 dovrebbe essere inaugurato il gasdotto South Stream che attraverso la Grecia trasporterà il gas russo fino in Puglia.

Parallelamente alla costruzione di sempre nuove pipeline in Italia è prevista nei prossimi anni la costruzione di 13 impianti di rigassificazione che potrebbero assorbire annualmente oltre 100 miliardi di metri cubi di gas liquido trasportato per mezzo delle navi gasiere.
Il primo rigassificatore che si affiancherà a quello costruito una trentina d'anni fa dall'Eni a Panigaglia sarà quello di Rovigo. Costruito da una società di cui fanno parte Exxon Mobil, Qatar Petroleum ed Edison, l’enorme cassone di cemento armato è stato assemblato in un bacino di carenaggio spagnolo ad Algeciras, vicino a Gibilterra e dovrebbe prendere il largo a fine agosto, trainato da una flotta di rimorchiatori oceanici, in direzione dell’Italia, dove arriverà entro il mese di settembre per essere sistemato al largo del delta del Po ed ancorato definitivamente sul fondo del Mare Adriatico. Se i tempi saranno rispettati entro la fine dell’anno le prime navi metaniere dovrebbero arrivare dal Qatar partendo dal porto petrolchimico di Ras Laffan situato nel Golfo Persico ed una volta a regime l’impianto sarà in grado di trattare 8 miliardi di metri cubi di metano liquido l’anno.
Al rigassificatore di Rovigo dovrebbero affiancarsi nei prossimi anni quello off shore di Livorno costruito dalla tedesca Eon, il rigassificatore di Trieste appannaggio del colosso iberico dell’energia Gas Natural, quello di Augusta che sarà costruito dalla Erg, il rigassificatore di Porto Empedocle di competenza dell’Enel, l’impianto di Porto Recanati che sarà realizzato da Gaz de France ed il rigassificatore di Falconara appannaggio dell’Api.

Nonostante questo ambizioso programma energetico, anche di fronte alle reiterate proteste dei cittadini che dovranno convivere con impianti altamente impattanti e pericolosi, sia stato portato avanti giustificandolo a più riprese come indispensabile per fare fronte all’incremento esponenziale dei futuri consumi energetici italiani, appare evidente come in realtà esso sia funzionale esclusivamente ad incrementare i profitti dei colossi dell’energia. Infatti anche immaginando nel futuro del nostro Paese un trend economico quanto mai ottimista (partendo da una realtà economica che all’ottimismo lascia ben poco spazio) appare evidente la sproporzione fra le potenzialità italiane di consumo di gas ed i volumi di metano che le nuove infrastrutture consentirebbero di trattare. Se poi abbandoniamo per un attimo l’ottimismo ingiustificato per calarci in una realtà che parla il linguaggio della recessione, segnato dalla diminuzione della produzione industriale e dalla delocalizzazione delle imprese, ecco che la politica dei rigassificatori perde in chiave futura ogni significato che non sia quello della mera speculazione economica calata come sempre sulle spalle dei cittadini che alla fine saranno gli unici a dovere pagare il conto.

domenica 17 agosto 2008

GRANDI OPERE le infrastrutture dell'assurdo


Questo libro di Marco Cedolin è un ottimo viatico per la formazione di una coscienza correttamente informata sull’attuale virulenta espansione delle cosiddette “grandi opere” su scala planetaria. Dalle grandi dighe alle metropoli galleggianti, passando dai megainceneritori al TAV, il quadro tracciato dall’autore sulla devastazione ambientale globalizzata nel nome del progresso fondato sulla crescita può anche aiutarci a spazzare via qualche radicato luogo comune, a cominciare da quello che il 20% della popolazione mondiale occidentale consuma l’80% delle risorse dell’intero pianeta ed è pertanto la sola responsabile del degrado che sta mettendo a rischio la sopravvivenza dell’uomo sull’intero pianeta: follie come quelle delle 300 isole artificiali di Dubai o della diga cinese delle “Tre Gole” ci avvertono che, come minimo, l’occidente è in cattiva “buona compagnia” e non il solo responsabile di tutti i disastri del pianeta.
Il secondo luogo comune che, grazie al lavoro di Cedolin, possiamo mandare in pensione, è quello che relega il sud del mondo al ruolo di vittima sacrificale del nord economicamente avanzato: nel testo in discorso possiamo infatti trovare una nutrita elencazione di opere costosissime, prime su tutte le grandi dighe, che avranno conseguenze nefaste sugli equilibri ecologici e politici di molti paesi del terzo mondo e che stanno già creando le condizioni per future guerre, con particolare riferimento a quelle per l’acqua. Il sud del mondo, pertanto, è prima di tutto vittima delle sue stesse classi dirigenti, che sono spesso colluse con i poteri occidentali ma in ogni caso responsabili del proprio operato, perché le grandi opere hanno tutte una caratteristica in comune in qualsiasi parte del mondo vengano eseguite: quella di rastrellare e generare grandi movimentazioni di denaro che creano arricchimento per le élites ed impoverimento e degrado ambientale per molti. In questo contesto mi permetto di aggiungere una categoria di grandi opere non inclusa nel lavoro di Cedolin, ossia quella della corsa agli armamenti in generale e alla bomba atomica in particolare, realizzata anche da paesi nei quali grande parte della popolazione vive in condizioni miserabili: paesi che, nonostante questa palese contraddizione, ricevono ingenti risorse a scopi umanitari che finanziano così di fatto la pace sociale ai governi che operano tali politiche guerrafondaie, contribuendo inoltre ad impedire quella crescita politica che, nelle società fortemente diseguali, può avvenire solamente tramite un processo storico di “resa dei conti” tra le popolazioni sottomesse e sfruttate e le loro classi dirigenti.
Le riflessioni indotte dalla lettura di questo bel lavoro di Marco Cedolin ci consigliano pertanto che sarebbe ora di aggiornare l’orologio della storia, cercando finalmente di uscire dal comodo e coccodrillesco piagnisteo sugli eccessi del consumismo nostrano: la ricerca di un placebo esistenziale nello stordimento consumistico è l’unico vero fenomeno multietnico e multiculturale dell’era della globalizzazione, in grado di contagiare anche sistemi sociali con un forte fondamento etico come quello dell’economia e della finanza musulmana (vedi il capitolo “una follia chiamata Dubai”), a testimonianza del fatto che la propensione al delirio di onnipotenza dato dall’eccesso e dallo spreco è una tara etologica dell’essere umano e non una semplice circostanza di tempo e luogo delle società opulente e che, in quanto tale, getta una forte ipoteca sulle possibilità di sopravvivenza della nostra specie sul pianeta.
Conscio di questa realtà, Cedolin non si limita alla stesura di un cahiers de doléance: gli ultimi capitoli sono infatti dedicati alla “psicologia delle grandi opere” e ai “sacerdoti del progresso”, mettendo così a nudo le truffe ideologiche e mediatiche con le quali le grandi opere vengono fatte passare, agli occhi delle popolazioni che prima le finanziano tramite il servaggio fiscale e poi ne sopportano le conseguenze economiche e ambientali, come costruite nell’interesse generale, mentre quello finale, intitolato “l’alternativa della decrescita”, introduce alcuni spunti di riflessione sulla necessità di creare una coscienza politica e morale che possa contrastare la follia dominante della globalizzazione fondata sull’ideologia di una impossibile crescita infinita.
Recensione a cura di Maurizio Gasparello - 12 agosto 2008

sabato 9 agosto 2008

OLEODOTTO BTC :la Georgia e gli interessi americani

Marco Cedolin
Tratto da Grandi Opere – Arianna Editrice - 2008

L’oleodotto BTC, accreditato come il più lungo al mondo con i suoi 1.770 km congiunge la città di Baku, sulle sponde occidentali del Mar Caspio, con il porto turco di Ceyhan situato sulle sponde orientali del Mediterraneo, attraversando le ex repubbliche sovietiche dell’Azerbaijan e della Georgia per poi penetrare in Turchia. I lavori di progettazione e costruzione sono durati 12 anni con un costo finale di 4 miliardi di dollari (superiore del 32% rispetto alle previsioni) e quando l’impianto sarà a pieno regime si calcola che dovrebbe essere in grado di trasportare 1.000.000 di barili di greggio al giorno. L’opera è stata inaugurata alla presenza dei più alti dignitari di Turchia, Georgia e Azerbaijan e di alti esponenti del mondo petrolifero e bancario il 13 luglio 2006, praticamente in concomitanza con l’inizio dei bombardamenti israeliani in Libano.
A gestire la costruzione del BTC è stato un consorzio petrolifero, con sede alle Isole Cayman, guidato dalla compagnia britannica British Petroleum (BP) con il 30% e di cui fanno parte l’azera Socar con il 25%, la statunitense Unocal con il 9%, la norvegese Statoil con l’8%, la turca Tpao con il 6%, l’italiana ENI e la francese Total-Fina-Elf entrambe con il 5%, oltre ad altre compagnie minori. Il consorzio BTC ha stanziato sotto forma di capitale netto circa il 30% della cifra necessaria alla costruzione dell’opera, mentre il 70% è stato ottenuto tramite finanziamenti bancari in larga parte riconducibili alla Banca Mondiale e alla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.
Nel progetto dell’oleodotto BTC le motivazioni politiche sono sempre state preponderanti rispetto a quelle economiche. Gli Stati Uniti hanno pesantemente sponsorizzato la costruzione dell’opera senza farsi scrupolo di esercitare forti pressioni tanto nei confronti degli stati interessati dal progetto, quanto nei confronti delle compagnie petrolifere che avrebbero dovuto condurlo in porto. E’ opinione comune di molti analisti politici e finanziari che gli USA siano riusciti a far pagare ai contribuenti ed anche alle compagnie petrolifere europee un progetto che si rivela chiaramente come una priorità americana e non del vecchio continente, da sempre più interessato a stringere legami energetici con la Russia, nonché a considerare la costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti attraverso la regione dei Balcani finalmente pacificata.
Per mezzo del BTC attraverso il quale una volta a regime dovrebbe transitare una quantità di greggio pari al 7% dell’intero flusso di petrolio mondiale, Washington è infatti riuscita ad ottenere il duplice scopo di ridurre la propria dipendenza dal petrolio mediorientale e indebolire in maniera significativa i legami fra la Russia e le ex repubbliche sovietiche di Azerbaijan e Georgia, la cui condiscendenza rispetto alle scelte politiche statunitensi sembra preludere ad una vera e propria alleanza militare con gli Usa e la NATO. Anche Israele che vanta accordi di cooperazione militare a lungo termine sia con l’Azerbaijan che con la Georgia si è mostrato fin da subito molto interessato alla costruzione dell’oleodotto al fine di disporre di un corridoio energetico che colleghi il bacino del Mar Caspio con il Mediterraneo orientale tagliando fuori tanto la Russia quanto l’Iran. Una parte del petrolio trasportato dal BTC potrà essere infatti incanalata direttamente verso Israele attraverso un oleodotto subacqueo che colleghi Ceyhan al porto israeliano di Ashkelon e da lì dopo aver raggiunto il porto di Eilat sul Mar Rosso attraverso la Israeli Tipline, esportato verso i mercati asiatici.

L’oleodotto più lungo del mondo parte da Baku, la capitale azera che da oltre due secoli intreccia la propria storia con lo sfruttamento dei copiosi giacimenti petroliferi presenti nella regione. A Baku le prime trivellazioni risalgono agli inizi del XVIII secolo e già all’inizio del 900 erano attivi 1.710 pozzi di petrolio che coprivano più della metà dell’intera produzione di greggio mondiale. L’impatto dell’industria petrolifera sull’aria, sull’acqua e sul territorio si è manifestato
da sempre in tutta la sua drammaticità, condizionando in maniera pesante la qualità della vita degli abitanti che non hanno mai beneficiato della ricaduta economica conseguente all’estrazione del petrolio. Basti pensare che i risultati di numerose autorevoli ricerche mediche dimostrano come l’incidenza delle patologie tumorali nelle aree di estrazione petrolifera risulti del 50% superiore alla media. La presenza delle immense risorse fossili e degli interessi connessi al loro sfruttamento hanno inoltre contribuito a creare nella regione forti tensioni politiche spesso sfociate in sanguinosi conflitti armati. Oggi dinanzi al grande terminal petrolifero di Baku, dove inizia il BTC, gli abitanti del villaggio locale che conducono una vita di stenti possono solo mostrare i segni che il progresso ha lasciato sulle loro vite. Si tratta di segni disperati che si possono leggere sulla loro pelle macchiata di rosso, nel cuoio capelluto che si squama, nelle labbra bruciate da un qualcosa di indefinito, nelle malformazioni con cui nascono i loro figli. Un progresso che parla il linguaggio degli equilibri geopolitici e della battaglia per il controllo delle risorse energetiche ma in questo angolo di mondo è riuscito a regalare solo disperazione, alberi senza frutti né foglie, animali nati senza zampe e nuvole di polvere puzzolente che fanno bruciare gli occhi.

La travagliata storia dell’oleodotto BTC è costellata da una sequela di grandi e piccoli episodi di prevaricazione, false promesse mai mantenute ed errori tecnici marchiani, il tutto nell’ambito di un progetto che non ha tenuto nella minima considerazione tanto le problematiche derivanti dall’impatto ambientale dell’opera quanto i rischi di varia natura derivanti dalla sua costruzione. Basti pensare che nella sola fase di progettazione dell’opera sono state portate alla luce ben 173 violazioni di standard sociali ed ambientali.
Il consorzio BTC, la cui opera di persuasione è stata coadiuvata dalle pressioni statunitensi, ha indotto Turchia, Georgia ed Azerbaijan a firmare e ratificare tramite accordi con statuto internazionale veri e propri contratti capestro che sovrascrivono interamente le preesistenti legislazioni ambientali, sociali, del lavoro e dei diritti umani nell’ambito dell’intero corridoio attraversato dall’oleodotto. In virtù di questi contratti il consorzio BTC avrà per i prossimi 40 anni il potere di governo effettivo sugli interi 1770 km attraversati dalla pipeline, potendosi di fatto permettere di non tenere in alcun conto le singole legislazioni degli stati attraversati dall’opera. Turchia, Georgia ed Azerbaijan si sono inoltre impegnate a non introdurre per 40 anni alcuna nuova legge che possa alterare l’equilibrio economico del progetto o ridurre i diritti garantiti al consorzio, mentre tutte le responsabilità in caso d’incidenti ed attacchi all’oleodotto saranno ad esclusivo carico del governo nell’ambito del cui territorio si è verificato l’inconveniente. In pratica attraverso questi contratti è stato venduto il futuro delle popolazioni turche, georgiane ed azere, in quanto i governi che si succederanno negli anni a venire si troveranno nell’assoluta impossibilità d’invocare i propri poteri esecutivi per emendare gli accordi in modo da potere garantire ai propri cittadini una maggiore tutela sulla salute, la sicurezza dell’ambiente o qualsivoglia altro tipo di protezione.
Sempre restando nell’ambito di questa anomalia legislativa le Valutazioni d’Impatto Ambientale dell’opera, approvate dai paesi interessati nel corso del 2002, prevedevano il passaggio attraverso zone protette, in palese violazione delle leggi ambientali dei paesi interessati. All’interno di tali VIA non sono state inoltre menzionate le alternative possibili, così come richiesto dalle legislazioni nazionali e dalle politiche ambientali di alcuni fra i principali finanziatori del progetto, come ad esempio la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. In tutti i paesi interessati dall’opera i lavori di costruzione hanno portato al danneggiamento di strade locali e sistemi di drenaggio ed irrigazione, ostacolando la vita quotidiana delle persone e mettendo a repentaglio l’equilibrio delle microeconomie locali. In Azerbaijan l’oleodotto attraversa l’area semidesertica del Gobustan, una zona estremamente fragile che nel 1996 fu dichiarata Riserva Naturale ed è candidata a diventare Patrimonio Mondiale dell’Unesco, essendo in essa custoditi reperti archeologici ed artistici, alcuni dei quali risalenti al 10.000 A.C.
In Georgia il percorso attraversa per 20 km l’area di Borjomi/Bakuriani che fa parte dell’omonimo parco nazionale gestito dal WWF con il sostegno del governo tedesco. Quest’area che risulta particolarmente conosciuta per le proprietà benefiche delle sue acque minerali e gode di uno status di protezione in virtù della legge georgiana sulle risorse idriche è sempre stata meta di turismo e importante fonte di reddito per le comunità locali. La qualità delle acque a causa della presenza dell’oleodotto è oggi sottoposta al grave rischio d’inquinamento, con il rischio di pregiudicare l’intera economia della zona. Il governo georgiano, preoccupato per l’impatto dell’opera su un territorio così delicato, interruppe i lavori di costruzione del BTC per una settimana chiedendo fosse preso in considerazione un percorso alternativo, salvo poi tornare sui suoi passi e consentirne la ripresa in seguito a pressioni del segretario della difesa Usa Donald Rumsfeld.

Come accade regolarmente per tutte le grandi opere anche l’oleodotto BTC fu presentato alle popolazioni locali interessate dal progetto, come una fonte sicura di crescita, sviluppo e nuova occupazione, nel palese tentativo di creare condivisione e mascherare le reali pesanti conseguenze negative dell’operazione. A questo proposito bisogna tenere conto del fatto che larga parte degli abitanti dell’Azerbaijan e della Georgia, in particolare le popolazioni delle zone rurali che sono quelle maggiormente interessate dagli impatti derivanti dalla costruzione e gestione dell’oleodotto, vivono da quando i due stati hanno ottenuto l’indipendenza dall’Unione Sovietica in una situazione di estrema penuria energetica. Sfruttando questo stato di cose una delle leve attraverso le quali il consorzio BTC tentò di costruire consenso intorno all’opera fu la falsa promessa di destinare una parte delle risorse energetiche al fabbisogno locale per i servizi di base, quale ad esempio il riscaldamento delle case.
In realtà la grande quantità di nuovi posti di lavoro prospettata quando venne presentato il progetto è rimasta una chimera e sia in Azerbaijan che in Georgia la costruzione dell’opera ha offerto ben poche opportunità alla popolazione locale che è rimasta preda della grave piaga della disoccupazione. In Georgia a fronte della promessa di 70.000 nuove assunzioni solo 250 persone sono state in realtà assunte in maniera permanente. La manodopera locale spesso è stata “usata” solamente per brevi periodi di tempo, adibita alle mansioni più umili e pericolose a fronte di salari estremamente bassi e turni di lavoro massacranti. Molte comunità locali hanno sollevato accuse di sfruttamento e di lacune assicurative per i lavoratori, corruzioni nel reclutamento e boicottaggi delle attività sindacali. A causa di ciò, soprattutto nelle regioni di Krtsanisi e Borjomi sono avvenuti centinaia di scioperi che hanno ostacolato i lavori, con più di 80 casi solamente durante il primo mese di costruzione. Nel mese di ottobre 2004 in Azerbajan è stata aperta un’inchiesta concernente alcuni lavoratori i cui turni di lavoro erano di 12 ore al giorno per sette giorni la settimana, in aperta contraddizione con la legislazione del lavoro vigente. In Georgia il sindacato nazionale “Georgian Trade Union Amalgation” ha guidato una manifestazione contro il BTC contestando il fatto che le leggi sul lavoro della Georgia venivano sistematicamente violate a causa della pressione esercitata sui lavoratori per rispettare le rigide scadenze del piano di costruzione. Anche in questo caso i lavoratori venivano costretti a turni di 12/14 ore al giorno sette giorni su sette, per assicurarsi uno stipendio minimo.
Numerose ed estremamente tragiche sono state anche le problematiche connesse all’esproprio dei terreni attraverso i quali avrebbe dovuto passare l’oleodotto. Oltre 30.000 contadini che si trasmettevano da secoli la terra di generazione in generazione, senza essere in possesso di un titolo di proprietà riconosciuto, hanno visto espropriati i propri terreni senza alcun rimborso o nel migliore dei casi a fronte di un rimborso del tutto insufficiente a garantire la loro stessa sopravvivenza. Tanto in Georgia quanto in Azerbaijan si sono riscontrati molti casi di corruzione da parte dei funzionari preposti all’assegnazione dei risarcimenti per l’esproprio dei terreni sia privati che pubblici e sono state numerose le occupazioni illegali di terreni non formalmente venduti. Anche in Turchia la situazione non si è rivelata assolutamente migliore e il “Kurdish Human Rights Project” ha inoltrato alla Corte Europea un caso di violazione dei diritti umani concernente 38 villaggi colpiti dai lavori di costruzione dell’oleodotto, dichiarando diverse violazioni della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Sono stati contestati l’uso illegale delle terre private senza il pagamento di risarcimenti, gli espropri coattivi, il sottopagamento dei terreni, le intimidazioni, l’assoluta assenza di consultazioni pubbliche, il mancato risarcimento dei danni collaterali ai terreni e alle proprietà.
Numerose e molto estese sono state le proteste di piazza e le contestazioni contro la costruzione del BTC, spesso represse in maniera violenta attraverso l’uso della forza. Nel mese di maggio 2004 Ferhat Kaya, un difensore dei diritti umani turco è stato detenuto e probabilmente torturato per avere manifestato insieme con gli abitanti di alcuni villaggi danneggiati dall’oleodotto. In Azerbaijan sono state segnalate molte violazioni dei diritti umani, consistenti in arresti e detenzioni arbitrarie, nei confronti di chi si è opposto alla costruzione del BTC. Nel villaggio di Nardaran alla periferia di Baku si sono svolte molte manifestazioni pacifiche a partire dal 2002, l’ultima delle quali dispersa con la forza dalla polizia che ha ucciso un manifestante e ne ha feriti una sessantina. In Georgia nel mese di settembre 2003 una manifestazione ambientalista pacifica contro il BTC è stata duramente repressa dalla polizia locale che ha ferito molti manifestanti.

I lavori di costruzione dell’oleodotto sono inoltre stati contraddistinti da una lunga sequela di scandali aventi come oggetto i materiali inadeguati e scadenti utilizzati per la realizzazione delle tubature, con conseguente grave rischio di versamenti di greggio ed incidenti futuri.
Nel mese di novembre 2003 la BP, dopo avere scoperto la rottura di un rivestimento della tubatura, sospese segretamente i lavori di costruzione in Azerbaijan e in Georgia per 10 settimane, in quanto più di un quarto delle giunture in Georgia erano state danneggiate. L’azienda sostenne in seguito di avere provveduto alla riparazione delle rotture attraverso trattamenti ad alta temperatura, ma analoghe esperienze passate hanno rivelato l’assoluta inefficacia di una soluzione di questo tipo.
Nel mese di febbraio 2004 il Sunday Times rivelò che per gran parte delle giunture in Azerbaijan e in Georgia era stata usata una vernice sbagliata e si sarebbe reso necessario dissotterrare e rivestire nuovamente larga parte dell’oleodotto.
Nel mese di giugno 2004 alcuni ingegneri che hanno contribuito alla costruzione del tratto turco dell’oleodotto denunciarono numerosi difetti nel metodo di costruzione delle tubature, quali l’utilizzo di materiali inappropriati e l’incapacità da parte del personale specializzato di identificare faglie sismiche in una regione ad elevato rischio di terremoti. Secondo le parole degli ingegneri, tutti con più di 20 anni di carriera nel campo specifico, la costruzione del tratto turco dell’oleodotto sarebbe stata costellata da una serie di gravi incompetenze, dall’impiego di manodopera inadeguata e da inappropriati tagli dei costi. Nel dettaglio non sarebbero stati consultati gli specialisti adeguati per le consulenze ingegneristiche, si sarebbero usati metodi e materiali inadatti che non potranno assolvere alla funzione per cui erano previsti, non sarebbero state rispettate le procedure e le indicazioni specifiche previste dal progetto. Inoltre non ci sarebbe stato alcun controllo di qualità, si sarebbe impiegato personale non adeguatamente qualificato e formato, sarebbero state ignorate elementari misure di precauzione riguardanti l’ambiente, la salute e la sicurezza e per finire non ci sarebbero stati controlli sulle imprese locali che hanno contribuito alla fornitura dei materiali necessari per la costruzione dell’oleodotto, molte delle quali hanno poi dichiarato fallimento.

Se sono molte le preoccupazioni connesse agli aspetti tecnici della costruzione del BTC, altrettanti allarmi desta l’estrema vulnerabilità dell’oleodotto, particolarmente esposto ai pericoli derivanti da eventuali conflitti armati ed attentati terroristici, attraversando una regione fra le più instabili del pianeta, con molti focolai di guerre e conflitti irrisolti che rischiano di riacutizzarsi a causa della presenza dell’opera. L’ambasciatore britannico in Azerbaijan Laurie Bristow, in una lettera datata settembre 2004 e citata in un articolo del quotidiano The Guardian, esprimeva dei fortissimi dubbi sulle capacità delle forze di sicurezza azere di far fronte agli incombenti pericoli e metteva in risalto come le varie realtà della società civile locale e internazionale avrebbero dovuto essere valutate molto più attentamente prima di procedere al finanziamento del progetto BTC. A conferma dell’estrema fondatezza di questi timori l’intero percorso dell’oleodotto è presidiato dalle forze armate dei paesi attraversati, coadiuvati in alcuni casi anche da militari dell’esercito USA. La Georgia ha firmato un accordo con la compagnia americana Northtrop Grumman per sviluppare un sistema di monitoraggio dello spazio aereo relativo al BTC attraverso un sistema radar. Inoltre gli Stati Uniti hanno stanziato 11 milioni di dollari finalizzati alla creazione di un corpo militare speciale composto da 400 unità georgiane che saranno direttamente addestrate da ufficiali americani.
Qualunque attentato o azione di sabotaggio rischierebbe comunque di produrre delle conseguenze catastrofiche sia per quanto riguarda l’incolumità fisica degli abitanti che vivono in prossimità della pipeline, sia per quanto riguarda l’integrità ambientale dei territori attraversati dalla stessa.

martedì 5 agosto 2008

LA RUSSA ED I POST - SESSANTOTTINI

Marco Cedolin

Da ieri ha preso il via l’operazione “Strade sicure” che contempla lo schieramento nelle principali città italiane di 3 mila soldati impegnati in compiti di ordine pubblico. I soldati saranno impiegati nella vigilanza di postazioni fisse, nel controllo dei Centri per immigrati e nel pattugliamento congiunto con le forze di polizia delle aree ritenute più a rischio.
La decisione di mandare i militari nelle strade delle città, come già prima di oggi quella di schierare l’esercito a “difesa” delle infrastrutture, ha scatenato nell’arena politica un vespaio di polemiche fra chi sostiene la scelta nel “nome dei cittadini” e chi la considera una mera operazione di facciata a fini propagandistici. Anche l’opinione pubblica nel valutare il provvedimento sta mostrando profonde divisioni, sostanzialmente fra coloro che con i militari nelle strade dichiarano di sentirsi più sicuri e coloro che non gradiscono le città militarizzate o più semplicemente ritengono che l’intera operazione sia controproducente.

Entrambe le posizioni sono naturalmente legittime, così come è legittimo che qualunque cittadino possa esternare le proprie perplessità di fronte alla militarizzazione delle aree metropolitane, senza per questo venire etichettato in malo modo da un ministro della Repubblica al quale la canicola ha in tutta evidenza dato alla testa.
Il ministro della Difesa canicolato è tale Ignazio La Russa che contrariato per le proteste a cui è andata incontro la scelta di usare “impropriamente” l’esercito, ed evidentemente incapace di articolare una giustificazione plausibile che dimostrasse la bontà dell’operazione, ha dichiarato con fare concitato “Oltre ai delinquenti, agli stupratori, a chi fa furti e rapine, sono contrari alla presenza dei militari per garantire la sicurezza solo i post sessantottini”.

Personalmente non ho mai partecipato a furti, stupri o rapine, né posso essere considerato un delinquente non avendo mai infranto la legge, né mi sento parte di quella fantomatica schiera di post – sessantottini cui allude l’invasato La Russa, dal momento che in quegli anni frequentavo a malapena le elementari e anche successivamente non mi è mai accaduto di caldeggiare l’operato dell’estrema sinistra.
Nonostante ciò considero l’operazione “Strade sicure” una misera commedia di cattivo gusto, messa in piedi da un governo che sta maldestramente tentando di mostrare i muscoli, laddove ci sarebbe invece necessità di usare un cervello del quale non esiste traccia all’interno di questo esecutivo.
La criminalità e la microcriminalità vanno combattute facendo rispettare la legge, anche in fase giudiziaria, utilizzando le forze dell’ordine che dovrebbero essere preposte a questo compito, anziché destinate a servire gli interessi particolari di una moltitudine di personaggi della politica, dell’imprenditoria, dello sport e dello spettacolo, che dispongono di polizia e carabinieri a proprio uso e consumo.
L’esercito dovrebbe essere usato per difendere il territorio nazionale da eventuali aggressioni esterne (come previsto dalla Costituzione) anziché essere utilizzato per portare la guerra in giro per il mondo, come avviene da molti anni, e perfino per militarizzare le città italiane.
La farsa costituita dai soldati che pattugliano le città, oltre che risultare fortemente offensiva nei confronti degli stessi agenti di polizia, si palesa tanto inutile quanto pericolosa, dal momento che costringerà i militari ad espletare compiti per i quali non sono stati addestrati, con il rischio di aumentare ulteriormente la confusione ed il potenziale di pericolo presenti nelle nostre strade.
Mi dispiace dovere contraddire il ministro La Russa, probabilmente rimasto vittima di un colpo di calore, ma per essere contrari alla presenza dei militari nelle strade non occorre essere delinquenti o post – sessantottini, basta semplicemente usare il buon senso e recuperare un minimo di raziocinio, evitando di limitarsi a cavalcare, come fanno lui e la sua coalizione, la crescente paura che attanaglia i cittadini attraverso grottesche iniziative “pubblicitarie” senza costrutto alcuno.