giovedì 28 maggio 2009

SERRAGLIO ELETTORALE


Marco Cedolin
Tutto è grottesco nella corsa elettorale che si sta consumando sotto il sole di questa canicola prematura di fine maggio. Ad iniziare dal merito delle elezioni stesse, un parlamento europeo di cui al di là della facile mangeria si fatica assai ad evincere il senso e delle amministrazioni provinciali che a breve potrebbero ritrovarsi a non amministrare più nulla, se la soppressione delle province da tempo ventilata finirà per andare in porto.

Preso atto della scarsa salienza della consultazione, ciò che più risulta avvilente sono i toni ed i contenuti espressi dalla sarabanda dei partiti politici, con l’unica eccezione costituita dalle piccole formazioni politiche (di destra come di sinistra) che comunque sono già state deprivate a priori dal parlamento della possibilità di tramutare in rappresentanza politica i voti dei propri elettori.

I “partiti che contano” o sperano di contare stanno affrontando la campagna elettorale con lo stesso spirito con cui ci si da vita ad una sonora scazzottata al bar dello sport, in merito al contestato rigore della domenica. Lo sfrenato egotismo ed il diffuso malanimo, stanno producendo fra PD e PDL ed i piccoli partiti a loro satellizi, una serie infinita di risse verbali, attacchi alla persona e insulti gratuiti del tutto fini a sé stessi, funzionali solamente alla volontà comune di non entrare nel merito delle gravi problematiche che affliggono il paese e l’Europa tutta.
Neppure una parola riguardo al Trattato di Lisbona, alla perduta sovranità monetaria, all’Europa dei burocrati tesa ad annientare il valore aggiunto costituito dalle peculiarità delle comunità che si vorrebbero ogni giorno di più sradicate dai propri territori e dalle proprie tradizioni. Silenzio totale in merito all’Europa della precarietà, dove si cannibalizzano i diritti dei lavoratori, depauperando oltre mezzo secolo di conquiste sociali
Neppure una proposta concreta attraverso la quale affrontare la vera crisi (non l’ologramma della crisi finanziaria) di un modello di sviluppo prossimo a defungere, per effetto della quale nel corso dei prossimi anni sempre più ampi strati della popolazione si vedranno privati della possibilità di realizzare un reddito che possa consentire loro una sopravvivenza dignitosa, a dispetto di tutti i cabalisti a pagamento che pronosticano la fine della crisi senza essere in grado di produrre una sola ragione in virtù della quale l’ipotesi dovrebbe realizzarsi. Neppure un minimo cenno di autocritica per avere dato vita ad un processo di globalizzazione tanto insensato quanto controproducente, a solo beneficio dei profitti di banche e corporation. Nessuna volontà di procedere ad una riflessione in merito allo strapotere dell’oligarchia finanziaria, i cui risultati in termini di disoccupazione, povertà diffusa e progressivo annientamento dei diritti, iniziano a farsi sentire in maniera devastante.

I partiti che contano non gradiscono parlare di politica, trattandosi di temi troppo complessi all’interno dei quali è facile scivolare. Immaginate Antonio di Pietro che ha reclutato in tutta Italia una marea di candidati “sensibili ai problemi ambientali” alle prese con temi come l’incenerimento dei rifiuti, la cementificazione del territorio e le grandi opere di cui si è sempre fatto portatore. Immaginate la Lega Nord posta di fronte al tema del trattato di Lisbona che cozza violentemente con i presupposti che sono alla base della sua stessa nascita. Immaginate Franceschini che oggi domanda finanziamenti a pioggia per i disoccupati, ma in due anni di governo si è guardato bene dal destinare loro un solo euro. Immaginate lo stesso Berlusconi chiamato a sostanziare le ragioni per cui i cittadini dovrebbero rimanere ottimisti di fronte alla chiusura generalizzata delle aziende e all’aumento della cassa integrazione di oltre il 300%. Per non parlare di SL di Nichi Vendola che ha reclutato all’interno della propria formazione politica perfino i Verdi in fase di dissoluzione, pur sostenendo apertamente il TAV, i rigassificatori e l’incenerimento dei rifiuti o dell’UDC di Casini/Caltagirone impegnato a sostenere la “famiglia” attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile ed i valori cristiani per mezzo dell’aumento delle capacità militari europee.
Accantonata la politica che è scomoda e non fa chic, meglio allora fare proprio il modello “Amici” e “Buona Domenica”, dove la rissa verbale, l’insulto, la zuffa condita dai peggiori epiteti, conseguono un’ottima resa in termini di audience e se trasposti altrove possono rappresentare la falsariga di una campagna elettorale condotta unicamente “contro” l’avversario, senza l’ambizione di effondersi in alcuna proposta politica degna d’interesse. Ultimo esempio, ma solo in ordine di tempo, di quanto grottesca sia la classe politica italiana, lo ha reso ieri il leader pro tempore del PD Franceschini che impegnato ad attaccare Berlusconi, pur avendo migliaia di argomenti legittimi e concreti attraverso i quali poterlo fare, ha preferito le offese a livello familiare, con la conseguenza di ottenere una brutta figura e fare scendere ancora più in basso il livello di questa già avvilente campagna elettorale.

mercoledì 20 maggio 2009

FA MALE L'ACQUA DEL RUBINETTO?


Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta

I risultati delle analisi compiute dall’Università di Napoli Federico II, sulla qualità dell’acqua che esce dai rubinetti delle case degli italiani, sono senza dubbio tali da destare un certo allarme ed imporre tutta una serie di riflessioni.
Stando alle parole di Massimiliano Imperato che ha coordinato lo studio nel quale è stata analizzata l’acqua che esce dai rubinetti (circa 20 abitazioni campione per città) in 50 città italiane facenti parte di 17 regioni, fra cui grandi centri come Milano, Torino, Napoli, Roma, Venezia, Bari, Grosseto, Firenze, Pavia, Vercelli, Novara, Bolo­gna, Genova, circa il 25% dei campioni prelevati mostrano inquinamento di natura chimica e microbiologica.
Gli elementi di contaminazione chimica sono costituiti per la maggior parte da trialometani (cloroformio) e da composti organoalogenati (trielina ed altri) che risultano essere sottoprodotti della clorazione dell’acqua, ma sono state riscontrate anche tracce di sostanze medicinali quali antibiotici, ansiolitici, an­ti- infiammatori che hanno evidentemente superato i depuratori . Mentre i contaminanti di origine microbiologica risultano essere per lo più colibatteri.

Se le conseguenze sulla salute umana determinate dalla presenza dei colibatteri preoccupano relativamente poco, altrettanto non si può dire degli agenti chimici e dei composti che possono venirsi a creare attraverso l’interazione di vari elementi. In questo caso infatti, soprattutto a fronte di un’assunzione prolungata dell’acqua contaminata, può aumentare il rischio di cancro alla prostata, ala vescica e al retto e verificarsi una tossicità a carico del fegato e dei reni.

I risultati delle analisi dell’Università di Napoli ingenerano senza dubbio una certa confusione all’interno della galassia ambientalista, da tempo impegnata ad incoraggiare anche negli asili e nelle scuole l’uso dell’acqua del rubinetto, per combattere “l’industria” delle acque minerali imbottigliate, che contribuisce pesantemente ad incrementare l’inquinamento (imbottigliamento, trasporto ecc.) e la produzione di rifiuti sotto forma delle bottiglie di plastica. Viene spontaneo domandarsi se quello dato finora fosse un consiglio “giusto”, alla luce del fatto che l’acqua di alcuni rubinetti potrebbe risultare nociva per la salute.

Riguardo all’impatto ambientale ed al consumo di risorse indotto dall’industria dell’acqua imbottigliata non possono assolutamente esistere dubbi, ragione per cui è impossibile prescindere dall’incoraggiare, come fatto finora, l’utilizzo dell’acqua del rubinetto. I risultati delle analisi del Federico II devono però indurre con altrettanta fermezza a pretendere una capillare serie di controlli da effettuarsi (come suggerisce lo stesso Imperato) al rubinetto e non a monte, una revisione delle leggi concernenti le dosi minime di agenti inquinanti consentiti nell’acqua (in genere troppo permissive) e un generale ripensamento del modo in cui le acque spesso vengono depurate attraverso l’uso massiccio della clorazione.In sostanza la battaglia in favore dell’acqua del rubinetto non può prescindere da quella per garantire la sua qualità e su questo fronte finora si è fatto sicuramente troppo poco.

sabato 16 maggio 2009

L'EUROPA PERDE IL PIL MA NON IL VIZIO


Marco Cedolin
I dati economici concernenti il primo trimestre del 2008 risultano essere ben più disastrosi di quanto non facessero supporre le previsioni degli esperti, e l’economia della zona euro precipita come mai prima d’ora dalla fine della seconda guerra mondiale.
Complessivamente nei primi tre mesi dell’anno il Pil europeo ha registrato un calo del 2,5 %. La Germania, da sempre considerata “locomotiva d’Europa”, ha perso nel primo trimestre 3,8 punti di Pil, l’Italia ha fatto segnare un pesantissimo –5,9%, In Spagna la discesa è stata del 2,9% e la Francia dopo 6 mesi di calo continuo è ufficialmente entrata in recessione con una diminuzione del Pil dell’1,2%.

L’Europa è in crisi e ad ogni nuovo trimestre le stime negative redatte in precedenza devono essere riviste al ribasso, mentre gli economisti ed i mestieranti della politica continuano a spostare più in là (fine 2009, inizio 2010, fine 2010) la data d’inizio della fantomatica ripresa che dovrebbe concretizzarsi in virtù di un qualche esercizio alchemico la cui origine resta sconosciuta.
L’ologramma della crisi finanziaria, utilizzato per tentare di raschiare il fondo di un barile ormai svuotato, attraverso sempre più ingenti trasfusioni di denaro pubblico, all’interno di un sistema bancario ben più tossico di quanto non lo siano i titoli ritenuti tali, sembra ormai prossimo a dissolversi. Scomparso l’ologramma non tarderà a palesarsi la vera crisi, quella del modello di sviluppo basato sulla crescita infinita e sull’incremento del Pil. Un modello di sviluppo che ha iniziato a disgregarsi, vittima della presunzione in esso contenuta, di potere crescere indefinitamente all’interno di un mondo finito che pone dei limiti fisici invalicabili.
Solo un folle potrebbe pensare sia possibile incrementare all’infinito il numero di automobili prodotte e vendute, di autostrade costruite, di barili di petrolio consumati, di terreni cementificati. Così come solo un folle tenterebbe di curare un malato di obesità, attraverso l’assunzione bulimica di cibo.

Nell’Europa della delocalizzazione industriale, della disoccupazione in crescita esponenziale e degli alchimisti finanziari, una classe dirigente fatta di burocrati privi di fantasia, ma pronti ad obbedire agli ordini dei propri padroni, continua a recitare un copione sgualcito e stantio. Un copione dove si promette la ripresa economica ormai prossima (2009? 2010? 2011?) da realizzarsi attraverso l’incremento della produzione, dei consumi e naturalmente del Pil, vera panacea che tutto guarisce come per incanto. Poco importa il fatto che il Pil e la crescita siano ormai solamente gli elementi di un modello di sviluppo in fase di disgregazione, del quale stiamo iniziando a pagare le conseguenze in maniera sempre più pesante. Così come poco importa l’evidenza in virtù della quale solamente cambiando radicalmente strada si potranno porre le basi per la “ripresa”di un’economia diversa da quella di rapina praticata fino ad oggi.
Crescita e Pil, dal 2010? Basta ripeterlo ogni mese come un mantra al borsino delle illusioni e va bene così.

giovedì 14 maggio 2009

CHI PAGHERA' LA RICOSTRUZIONE IN ABRUZZO?

Marco Cedolin

Si stanno gradualmente spegnendo i riflettori dell’attenzione mediatica intorno ai terremotati d’Abruzzo. Si stanno spegnendo, dal momento che dopo avere costituito una passerella senza paragoni per faccendieri politici di ogni risma e colore, recatisi all’Aquila come tanti Re Magi a portare in dono “parole di solidarietà”, ora il tempo delle parole sembra essere terminato, mentre sta sopraggiungendo quello della ricostruzione, per realizzare la quale occorrono i denari che la politica della commozione televisiva non sembra avere alcuna intenzione di scucire.

Proprio in merito ai finanziamenti per ricostruire le case crollate e gravemente lesionate, la situazione si sta facendo ogni giorno che passa più surreale, con il governo impegnato in complessi esercizi di equilibrismo, volti a salvaguardare i risultati della campagna elettorale. Risultati che rischierebbero di venire compromessi qualora fosse chiaro a tutti che i cittadini abruzzesi si vedranno costretti a sovvenzionare la ricostruzione di tasca propria, attingendo ai propri risparmi o indebitandosi con le banche.

In un emendamento al decreto legge per L’Abruzzo il governo ha scritto che "il contributo è determinato in ogni caso in modo tale da coprire integralmente le spese occorrenti per la riparazione, la ricostruzione nello stesso comune, o l'acquisto di un alloggio equivalente che rispetti le misure antisismiche". Quanto basta per potere affermare trionfalmente in TV e sui giornali che lo Stato coprirà al 100% le spese di ricostruzione per i terremotati.
All’interno dello stesso emendamento si può però leggere che l’erogazione dei contributi funzionerà “anche con le modalità del credito di imposta e di finanziamenti agevolati". Ed ecco l’inghippo, probabilmente destinato a concretarsi dopo la chiusura delle urne, in virtù del quale i cittadini abruzzesi scopriranno di essere costretti a “tirare fuori” in prima persona la maggior parte dei denari necessari per ricostruire le loro abitazioni.

Immaginando un “contributo statale” di 150.000 euro (limite massimo fissato dal governo) questo sarà infatti ripartito con tutta probabilità in tre parti. Un acconto di 50.000 euro verrà anticipato realmente e costituirà l’unico contributo sul quale il disgraziato terremotato potrà effettivamente contare. Altri 50.000 euro verranno offerti sotto forma di credito d’imposta. Il terremotato potrà cioè scalarli man mano dalle tasse che dovrà pagare negli anni a venire, sempre che egli continui ad avere un lavoro e pertanto a percepire un reddito sul quale pagare le tasse.
Gli ultimi 50.000 verranno concessi per mezzo di un mutuo agevolato. Il terremotato potrà insomma farsi carico di un mutuo presso le banche, da restituire in prima persona, detraendo la rata del prestito dai suoi redditi futuri, sempre ovviamente che questi esistano.

I terremotati abruzzesi che possiedono sufficienti risorse finanziarie potranno insomma ricostruire le proprie case a loro spese, con un contributo dello Stato che andrà da uno a due terzi, a seconda del fatto che essi abbiano o meno la fortuna di continuare a percepire un reddito negli anni a venire. Quelli che non posseggono le risorse finanziarie, saranno destinati ad albergare a tempo indefinito nelle baracche, nelle tende o nelle cuccette delle carrozze ferroviarie dimesse, continuando a chiedersi come sia potuto accadere, dal momento che il governo aveva assicurato la copertura del 100% delle spese di ricostruzione, prima delle elezioni.

lunedì 11 maggio 2009

Intervista: Grandi Opere


Intervista a cura di Daniel Tarozzi pubblicata su Terranauta
Lo scorso anno hai pubblicato un libro intitolato Grandi Opere, Le infrastrutture dell’Assurdo. Un titolo che non lascia molti dubbi sull’approccio all’argomento. Da cosa nasce? Come mai definisci le “grandi opere” in questo modo?
Grandi Opere nasce dalla volontà di fare una riflessione a 360 gradi sul mondo delle grandi infrastrutture. Una riflessione volta a mettere in luce la loro reale natura, i loro costi, l’effettiva utilità e gli impatti ambientali e sociali determinati dalla loro costruzione. Tentando di approfondire le eventuali alternative alla realizzazione delle grandi opere ed individuare quali sono i soggetti costretti a pagarne il conto e quali i soggetti che attraverso la loro costruzione accumulano profitti miliardari.
Ho definito le grandi opere “infrastrutture dell’assurdo” poiché molto spesso la loro costruzione non è motivata da necessità oggettive, ma semplicemente dalla volontà di costruire “profitto facile” attraverso la cementificazione del territorio.

Perché qualcuno dovrebbe comprarlo?
La lettura di Grandi Opere è utile per comprendere nel finanziamento di quali progetti viene speso il denaro del contribuente. Inoltre permette al lettore di maturare una visione a tutto tondo di un tema come quello delle grandi infrastrutture, riguardo al quale giornali, TV, politica e mondo sindacale offrono una visione parcellare, il più delle volte condizionata dagli interessi economici delle lobby che li sostengono.

È passato poco più di un anno dall’uscita del libro. Quale argomento tra quelli trattati resta per te più drammaticamente attuale e quale non avevi trattato, ma adesso aggiungeresti?
In linea di massima nell’anno trascorso tutti gli argomenti trattati nel libro sono rimasti drammaticamente attuali. La guerra fra Georgia ed Ossezia ha dimostrato ancora una volta quanto sia a rischio un’infrastruttura fragile come l’oleodotto BTC. In Italia è continuata la costruzione dei megainceneritori, ultimo in ordine di tempo quello di Acerra. Il processo di Firenze contro il consorzio CAVET ha messo in luce parte della profonda devastazione del territorio del Mugello determinata dalla costruzione delle gallerie del TAV Bologna – Firenze. Il governo italiano ha finanziato con 16 miliardi di euro la costruzione di nuove grandi opere, fra le quali alcune nuove tratte ferroviarie ad alta velocità ed il Ponte sullo stretto di Messina. Si ventila il ritorno in Italia delle centrali nucleari, nonostante come ampiamente documentato nel libro, sia nel nostro paese che nel resto del mondo nessuno abbia ancora individuato un qualche sistema efficace attraverso il quale stoccare in sicurezza le scorie radioattive.
Se a distanza di un anno dovessi aggiungere qualcosa, approfondirei sicuramente l’argomento centrali nucleari e parlerei del Ponte sullo Stretto di Messina. Inserirei anche il tema delle centrali a carbone “pulito” che in Italia stanno prolificando, nonostante quello del carbone “pulito” sia un ossimoro che non esiste e farei un’analisi dei progetti che riguardano i nuovi rigassificatori.

Berlusconi e il suo governo ancora una volta tentano di rilanciare le grandi opere. Tav, ponte sullo stretto, nucleare,rigassificatori, inceneritori. Siamo davvero destinati a vedere realizzate queste opere? E c’è qualche grande opera che tu ritieni necessaria?
In realtà il governo Berlusconi non sta facendo nulla di differente da quello che hanno fatto i governi precedenti (se si eccettua il tema del nucleare riguardo al quale il centrosinistra era più scettico) in tema di grandi opere. L’imperativo di costruire e cementificare accomuna tutte le forze politiche in maniera assolutamente trasversale ed è stato finora portato avanti senza esitazione a prescindere dal colore della maggioranza al governo. Alcune opere hanno maggiori possibilità di venire portate a termine, altre meno, tutto dipenderà probabilmente dalle disponibilità di denaro e dalla forza di pressione determinata dai singoli gruppi d’interesse. Sicuramente è più facile scommettere sulla costruzione di decine di nuovi forni inceneritori che non sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto.
Ci sono molte grandi opere (pur non nel senso canonico del termine) di cui l’Italia avrebbe estremo bisogno. Penso alla ristrutturazione del patrimonio edilizio pubblico e privato, finalizzata a diminuire il consumo energetico degli edifici. Penso alla ristrutturazione di migliaia di edifici scolastici che contengono amianto o i cui soffitti rischiano di cadere sulla testa degli studenti. Penso ad un progetto che riorganizzi il sistema di distribuzione dell’energia, in funzione del contenimento delle perdite e della valorizzazione dell’autoproduzione energetica individuale. Penso ad una grande opera di bonifica delle zone inquinate e di riqualificazione dei territori, che ogni qualvolta arriva una perturbazione sono soggetti a movimenti franosi e fenomeni alluvionali devastanti. Purtroppo si tratta di grandi opere che pur alimentando l’occupazione non farebbero salire a sufficienza il PIL e distribuirebbero il profitto su un vasto numero di piccole imprese, anziché indirizzarlo nelle mani dei “soliti noti” e forse proprio per questo non vengono prese in considerazione.

In genere chi si oppone alle grandi infrastrutture è accusato di portare avanti una sterile politica del no o di sindrome di nimby. Tu nel tuo libro, però, in ogni capitolo proponi soluzioni alternative alle opere “denunciate”. Sono alternative concrete? Credi che verranno realizzate?
Il ritornello della sindrome nimby (non nel mio cortile) è stato usato a lungo per screditare chiunque si opponesse alle grandi opere, anche se in realtà la maggior parte di coloro che contestano infrastrutture e nocività sono persone in possesso di conoscenze e consapevolezze estremamente elevate che li portano a spaziare ben oltre il proprio orticello.
Effettivamente molte volte nel libro ho proposto soluzioni alternative alle opere progettate o realizzate. Soluzioni che sarebbero più efficaci ed estremamente meno costose. Le alternative sono concrete ma non penso verranno mai realizzate, proprio perché il loro minore costo le rende scarsamente appetibili per i gruppi di potere che attraverso le grandi opere costruiscono i propri immensi profitti. Altre volte non mi è stato possibile suggerire delle alternative, poiché il problema che la grande opera presa in considerazione si proponeva di risolvere in realtà non esisteva. Non si può proporre un’alternativa al TAV Torino – Lione che i promotori dell’opera sponsorizzano come un’infrastruttura finalizzata a facilitare lo spostamento di viaggiatori e merci che nella realtà non esistono, oltretutto su una direttrice all’interno della quale il già scarso traffico merci e passeggeri esistente sta continuando a calare da oltre 8 anni. Così come non si può proporre un’alternativa che non sia la ristrutturazione del sistema di distribuzione dell’energia, ad una diga come quella di Sardar Savor, in India, che produce una quantità di energia annua inferiore di tre volte a quella che annualmente viene persa in fughe di distribuzione e trasmissione all’interno della regione.

Le grandi opere, però, non sembrano essere solo una caratteristica italiana. Ci vuoi fare qualche esempio straniero?
Gli investimenti di cifre colossali nelle grandi opere non sono affatto elusivo appannaggio dell’Italia. Nel libro ho preso in considerazioni molte infrastrutture ciclopiche realizzate o progettate in svariati paesi del mondo. Dall’Eurotunnel che corre sotto la Manica alle dighe che devasteranno l’Islanda, dalle grandi dighe cinesi a quelle costruite in Guatemala, in Argentina, in Turchia, in Africa e in India. Ho dedicato grande attenzione al deposito per scorie nucleari di Yucca Mountain nel Nevada, all’oleodotto BTC, alla Stazione Spaziale Internazionale e alle grandi infrastrutture di Dubai.

Verso la fine troviamo un capitolo intitolato “psicologia delle grandi opere”. Che significa?
E’ un capitolo molto interessante, perché al suo interno ci si domanda come sia possibile che i cittadini continuino a finanziare gioiosamente le grandi opere, pur ricevendo dalla loro costruzione unicamente conseguenze negative, sotto il profilo economico, ambientale e sociale. In realtà si tratta di un vero e proprio fenomeno di plagio, messo in atto dall’informazione e dalle classi politiche, che induce la pubblica opinione ad accettare l’assioma in virtù del quale le grandi opere producono progresso e ricchezza. Un assioma mai dimostrato, sostenuto attraverso slogan e frasi fatte contro l’evidenza determinata da migliaia di studi economici e scientifici, ma preso per buono dalla maggior parte della popolazione abituata ad informarsi solamente attraverso la TV ed i quotidiani.


Ti faccio una proposta: visto che i temi che trattati nel libro sono molti ed è impossibile riassumerli qui, che ne dici di farne una serie di articoli (uno per capitolo) nelle prossime settimana per la rubrica che curi in questo stesso giornale?
L’idea di un articolo per capitolo mi sembra ottima, certamente in questo modo sarebbe possibile rendere maggiormente il senso del mio lavoro ed entrare nel merito delle singole questioni. Cosa che ovviamente non si è potuto fare all’interno di questa intervista.

venerdì 8 maggio 2009

LA FIAT PREPARA CHIUSURE E LICENZIAMENTI


Marco Cedolin

Dopo settimane durante le quali i media italiani hanno incensato senza posa le politiche commerciali del gruppo FIAT e l’azione del suo ad Sergio Marchionne, indomito cavaliere lanciato alla conquista della Chrysler e dell’Opel, sembra essere arrivata la prima doccia fredda concernente i progetti per il futuro dell’azienda torinese.
I quotidiani tedeschi hanno ieri reso noti alcuni dettagli del nuovo “progetto Fenice”, attraverso il quale la FIAT intenderebbe perfezionare l’acquisizione dell’Opel e contemporaneamente suggere qualche miliardo di sovvenzioni pubbliche anche in Germania, come in Italia sta facendo sistematicamente da oltre mezzo secolo. All’interno delle 46 pagine che compongono il nuovo piano viene dichiarata l’intenzione di procedere alla chiusura in tutta Europa di una decina di stabilimenti (come riportato sulla cartina) con conseguente licenziamento di almeno 10.000 lavoratori.
In Italia gli stabilimenti a rischio smantellamento dovrebbero essere tre, Termini Imerese in Sicilia, Pomigliano in Campania e la Pininfarina di S. Giorgio Canavese in Piemonte.

La classe politica e buona parte del mondo sindacale italiano, fino a ieri impegnati a tessere le lodi di Marchionne e dell’azienda da lui capitanata (e dagli italiani tutti finanziata) che stava contribuendo a rivalutare l’immagine del nostro paese nel mondo, hanno reagito alla notizia con un misto d’incredulità e stupore.
Il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola ha immediatamente scritto una lettera al presidente della Fiat Luca di Montezemolo e all'amministratore delegato Sergio Marchionne, chiedendo di tenere presente la centralità delle fabbriche italiane e si è premurato di domandare l’organizzazione di un incontro a breve termine, al quale saranno presenti anche le organizzazioni sindacali. Il segretario della Uilm Antonino Ragazzi ha affermato trattarsi di una notizia completamente infondata. Il segretario della Cisl Bonanni ha tuonato contro l’allarmismo che non aiuta a far crescere il settore auto in Europa. Il segretario della Fiom Rinaldini ha detto che un simile disegno porterebbe all’apertura di un pesante conflitto sociale. Il vicesindaco di Torino Tom Dealessandri ha garantito da parte sua che non c'è alcuna ipotesi di chiusura di Mirafiori, unica fabbrica automobilistica della Fiat al nord, ignorando evidentemente che nel piano si fa espresso riferimento alla Pininfarina di S.Giorgio Canavese che certo non è ubicata in meridione.

I maggiori quotidiani italiani hanno dato la notizia facendo riferimento unicamente al giornale economico tedesco Handelsbatt, all’interno del quale veniva imputata al piano di Marchionne la chiusura di 2 stabilimenti (uno al Nord e uno al Sud) in Italia, senza citare nella maniera più assoluta altre fonti di stampa tedesche, come il Frankfurter Allgemeine che offriva una panoramica più dettagliata degli stabilimenti oggetto della chiusura, con l’ausilio della cartina che compare in cima all’articolo. Naturalmente dopo aver plaudito a lungo “l’eroica” cavalcata di Marchionne, diventa assai difficile illustrarne le reali conseguenze che si manifesteranno sotto forma di soggetti assai poco epici quali serrate di stabilimenti e licenziamenti di lavoratori, ragione per cui risulta imperativo indorare la pillola molto lentamente.

martedì 5 maggio 2009

INTERVISTA: TAV IN VAL DI SUSA


Intervista di Daniel Tarozzi pubblicata su Terranauta
Marco Cedolin, qualche anno fa le televisioni hanno bombardato gli italiani con le notizie sulla rivolta dei No Tav, ma poi non si è più saputo niente. Che cosa è successo veramente in Val di Susa? E cosa sta succedendo ora?
In Val di Susa nell’autunno del 2005 il governò tentò di aprire il primo cantiere del TAV Torino – Lione, e lo fece militarizzando un intero territorio, nel tentativo di offrire una prova di forza che fosse in grado di dissuadere dalla protesta tutti coloro che da 15 anni si battevano contro un progetto profondamente avversato dalla popolazione. Decine di migliaia di valsusini di ogni estrazione politica e sociale, posti di fronte ai check point e alle manganellate gratuite diedero vita ad una vera e propria sommossa popolare che costrinse il governo a tornare sui propri passi, smantellando il cantiere e rinunciando a partire con la costruzione dell’opera.
Nel corso degli ultimi 3 anni i governi che si sono succeduti, di concerto con gli amministratori locali, hanno dato vita ad una “melina” politica che aveva lo scopo di stemperare i toni e normalizzare una Valle diventata nel frattempo sempre più refrattaria alle imposizioni calate dall’alto. Oggi l’Osservatorio Virano, creato con lo scopo di far rientrare dalla finestra quella stessa opera che nel 2005 era stata buttata fuori dalla porta, sta portando a termine un nuovo progetto (se possibile ancora più impattante del precedente) ma finora non vi sono più stati tentativi di aprire cantieri per l’alta velocità in Valle di Susa.
Il tuo libro è del 2006. Sono passati tre anni, ma resta ancora attuale… Come si sono evolute le cose da allora? In cosa il tuo libro è ancora valido e in cosa è superato dai fatti?
In linea di massima “TAV in Val di Susa” è un libro estremamente attuale, nonostante siano ormai passati 3 anni dalla pubblicazione e mi sento di consigliarne la lettura a chiunque intenda approfondire l’argomento “alta velocità” (non solo in Val di Susa) e conoscere la cronaca e le motivazioni di una “rivolta popolare” senza precedenti nella storia recente italiana. Le informazioni contenute nel libro sono state superate dai fatti solamente per quanto riguarda la progressione dei lavori sulle tratte TAV italiane (che mi sono premurato di aggiornare nel libro successivo) e la posizione degli amministratori valsusini che si sono progressivamente allontanati dal movimento NO TAV per approdare su posizioni possibiliste nei confronti dell’opera.
Il movimento No Tav in Val di Susa fu uno straordinario esempio di mobilitazione dal basso. Come nacque il fenomeno? È ancora vivo o l’accordo dei sindaci lo ha strozzato?
Il movimento NO TAV in Val di Susa nacque agli inizi degli anni 90, grazie al grande lavoro compiuto da un gruppo di persone (esperti, tecnici, ambientalisti e normali cittadini) di buona volontà che iniziarono a produrre informazione sul territorio, mettendo a nudo sia gli impatti ambientali e sociali dell’opera, sia la perversa architettura finanziaria che stava dietro al progetto. Man mano che l’informazione creava conoscenza e dalla conoscenza nasceva consapevolezza, il gruppo continuò ad ingrandirsi, fino ad assumere le proporzioni di un grande movimento popolare come quello che ha fermato i cantieri nel 2005.
L’allontanamento dei sindaci, pur essendo stato vissuto da molti come un tradimento, non ha influito se non in maniera minimale sulla compattezza e la vitalità del movimento. Prova ne è il fatto che durante questi 3 anni di “melina politica” i comitati NO TAV sono stati più attivi che mai. Hanno raccolto 32.000 firme contro qualsiasi ipotesi di nuova linea ferroviaria in Valle, hanno acquistato a migliaia un metro quadro dei terreni che potrebbero divenire oggetto dei futuri cantieri, hanno organizzato grandi manifestazioni sempre molto partecipate, l’ultima delle quali lo scorso 6 dicembre a Susa con la presenza di 20.000 persone.
Col senno di poi credi siano stati utili le manifestazioni o hanno semplicemente rinviato l’inevitabile?
L’utilità delle manifestazioni si è dimostrata a posteriori al di là di ogni ragionevole dubbio. Se migliaia di cittadini, uomini, donne, giovani, anziani e bambini, non si fossero opposti alle ruspe fisicamente, in maniera tanto pacifica quanto risoluta, i lavori per la costruzione del TAV Torino - Lione sarebbero iniziati 3 anni fa. E oggi anziché stare qui a discorrere della contestazione ad un progetto, avremmo già incominciato a fare la conta dei primi danni e delle prime devastazioni causati dai cantieri dell’opera. Nulla è inevitabile se migliaia di cittadini sono disposti a mettersi in gioco in prima persona per evitarlo, si tratta di una verità incontrovertibile che purtroppo la maggior parte degli italiani non hanno ancora compreso.
Che rapporto c’è tra Freccia Rossa e la “vostra” Tav?
Nessuno poiché da “noi” attualmente sui binari della ferrovia esistente non transita il Freccia Rossa, bensì il TGV che è il treno ad alta velocità francese.
Quali sono i principali effetti negativi del Tav da un punto di vista ambientale?
I principali impatti ambientali derivanti dalla costruzione dell’infrastruttura per i treni ad alta velocità variano ovviamente a seconda del territorio che viene attraversato. Nelle zone pianeggianti (come ad esempio la pianura Padana) allo scempio paesaggistico costituito da una “muraglia cinese” di cemento armato che taglia in due i territori, si aggiunge quello della cementificazione dei terreni agricoli e del pesante inquinamento derivante dai cantieri (con annesse vere e proprie discariche illegali per rifiuti tossici come accaduto in molti casi riguardo ai quali indaga la magistratura) che stravolgono profondamente il territorio.
Nelle zone montuose, come il Mugello o la Val di Susa, dove la costruzione del TAV comporta lo scavo di lunghe gallerie, gli impatti ambientali si aggravano in maniera esponenziale. Gli scavi intercettano infatti le falde acquifere, determinando molto spesso il prosciugamento di torrenti e sorgenti, devastano gli equilibri di territori montani che sono per forze di cose estremamente fragili, possono portare alla luce materiali altamente tossici (si pensi all’amianto e all’uranio presenti in Val di Susa) esistenti all’interno dei monti.
E da un punto di vista sociale?
Dal punto di vista sociale i territori attraversati dall’infrastruttura del TAV vengono declassati al ruolo di mero corridoio di transito, subendo quello che comunemente viene definito come “effetto Bronx”. Le abitazioni ed i terreni presenti sul tracciato vengono espropriati, spesso senza un congruo indennizzo, mentre le case in prossimità dell’infrastruttura perdono una parte cospicua del proprio valore. I cittadini sono soggetti alle ricadute ambientali che ho descritto in precedenza e agli effetti deleteri sulla propria salute determinati da eventuali sostanze tossiche disperse nell’ambiente. Si determina inoltre una generalizzata perdita della “qualità di vita” a causa della pesante infrastrutturizzazione cui è soggetto il territorio.
A livello economico è vantaggiosa? Quali le alternative?
Il TAV italiano nella sua interezza è un’opera priva di qualsiasi prospettiva di vantaggio economico, dal momento che mancavano e mancano tutti i presupposti che avrebbero potuto giustificarne la costruzione. All’inizio degli anni 90 i promotori dell’opera tentarono di giustificarla (come Moretti tenta di fare ancora adesso) come una risposta al desiderio di “velocità” dei viaggiatori italiani. Ma i viaggiatori italiani sono costituiti per oltre l’80% da pendolari che compiendo viaggi inferiori agli 80 km mai usufruiranno del servizio. Verso la fine degli anni 90 la giustificazione divenne il trasporto merci e la conseguente redistribuzione modale fra gomma e ferro, ma le caratteristiche dell’infrastruttura del TAV pongono seri limiti alla coesistenza del servizio merci e di quello passeggeri sugli stessi binari, come sta a dimostrare il fatto che fino ad oggi sulle tratte TAV già in esercizio non è mai transitato un treno merci. In anni di crisi come quelli che stiamo vivendo, mancando sia i passeggeri, sia le merci che possano suffragare la costruzione dell’opera, i promotori stanno tentando di giustificare i cantieri del TAV come dispensatori di nuova occupazione. Nonostante sia noto a qualsiasi economista il fatto che a parità d’investimento i cantieri delle grandi opere determinano ricadute occupazionali fra le più basse in assoluto, sia sotto il profilo quantitativo, sia sotto quello qualitativo.
Per quanto riguarda la Valle di Susa l’alternativa esiste già, ed è costituita dalla ferrovia internazionale a doppio binario che attualmente attraversa la Valle per sbucare in Francia attraverso il tunnel del Frejus. Una ferrovia ammodernata di recente che sarebbe in grado di sopportare qualunque volume d’incremento di traffico (merci e passeggeri) futuro, anche se invece della recessione ci trovassimo di fronte a un boom economico.
Per quanto riguarda il resto d’Italia l’alternativa è quella di fare funzionare in maniera decente il sistema ferroviario. Investire nel raddoppio dei binari laddove le tratte sono ancora a binario unico, acquistare i treni per i pendolari che vivono quotidianamente un vero e proprio dramma, investire nella sicurezza introducendo il sistema SCMT sull’intera rete ferroviaria, investire nella costruzione di un servizio merci competitivo rispetto al trasporto su gomma, anziché smantellarlo gradualmente come invece sta avvenendo.
Quali i prossimi passi?
Lo scorso 6 marzo, nell’ambito del pacchetto infrastrutture, il governo ha finanziato il TAV Tortona – Genova, meglio conosciuto come Terzo Valico, ed il TAV Milano – Verona con 2,7 miliardi di euro. Probabilmente i nuovi cantieri dell’alta velocità verranno aperti su queste direttrici.
Sei ottimista per il futuro?
Molto moderatamente, dal momento che l’ottimismo non rientra nelle mie qualità. Sarebbe esercizio d’ingenuità pensare che la lobby del cemento e del tondino sia disposta a rinunciare a cuor leggero ad un’opera come il TAV in Val di Susa, in grado di travasare nelle sue tasche una quantità impressionante di miliardi. Sicuramente torneranno “all’assalto”, consapevoli degli sbagli commessi nel 2005, e pertanto con maggiori possibilità di riuscire nel loro intento, ma il pallino della questione resta sempre nelle mani dei cittadini. Se la risposta della popolazione sarà forte e coesa come lo fu allora, probabilmente arriverà il momento in cui si rassegneranno. Anche in un paese come l’Italia è impensabile portare avanti 20 anni di cantieri contro la volontà di larga parte della popolazione residente, militarizzando con migliaia di uomini una valle alpina.

domenica 3 maggio 2009

IL LUSSO A KABUL


Marco Cedolin
Molti sicuramente ricorderanno Buskashì, il libro all’interno del quale Gino Strada raccontava i giorni dell’invasione americana dell’Afghanistan, ritrovandosi ad essere uno dei pochissimi testimoni occidentali ad avere assistito alla presa di Kabul.
Proprio negli ultimi capitoli di Buskashì, Gino Strada descriveva il nuovo volto della Kabul “liberata”, dove si moltiplicava la presenza delle ONG, (fuggite nelle settimane dei bombardamenti) dei grandi network televisivi, dei diplomatici e sedicenti tali, tutti con grandi disponibilità di denaro. “Centinaia di jeep nuove fiammanti fanno la spola fra i ministeri. L’aeroporto è ancora più trafficato del bazar, aerei ed elicotteri in continuazione volano così basso da far tremare i vetri”. Con queste parole Strada tentava di rendere il senso della situazione, aggiungendo che tutto lo staff dell’ospedale di Emergency era stato sfrattato dalla casa in affitto in cui viveva da tempo, poiché una ONG molto “ricca” aveva offerto 5000 dollari al mese contro i 300 pagati dal personale fino a quel momento.

Oggi, a molti anni di distanza da quei giorni, un articolo comparso sul quotidiano inglese The Indipendent offre un interessante spaccato sulla “realtà dorata” nella quale vive la nuova elite di Kabul, mentre in tutto l’Afghanistan stragi e massacri di civili continuano a susseguirsi senza sosta.
L’inchiesta del quotidiano inglese mette in evidenza come i consulenti stranieri a Kabul siano retribuiti sontuosamente con stipendi che vanno dai 250.000 ai 500.000 dollari l’anno, mentre la popolazione locale si dibatte nella miseria più nera. Al tempo stesso sottolinea il fatto che larga parte degli aiuti economici stanziati a livello mondiale in favore dell’Afghanistan in questi anni, anziché contribuire al sostegno del paese hanno finito per rimpinguare le casse delle società private occidentali e mantenere l’alto tenore di vita dei loro funzionari.
A questo riguardo è interessante notare come interi quartieri di Kabul siano stati ricostruiti in maniera sfarzosa per ospitare le sedi di ambasciate ed ONG occidentali, mentre il 77% dei cittadini afgani ancora oggi non ha accesso all’acqua potabile. Altissimi sono anche gli esborsi economici destinati a salvaguardare l’incolumità dei funzionari occidentali, dal momento che ogni abitazione deputata ad ospitarli è stata convertita in una vera e propria fortezza ed i loro spostamenti avvengono sotto scorta, molte volte con l’ausilio di mezzi blindati ed elicotteri. Le imprese occidentali deputate alla ricostruzione delle infrastrutture (molte delle quali statunitensi) continuano ad ottenere enormi profitti, incassando cifre molto superiori a quelle necessarie per eseguire i lavori, che vengono poi sub appaltati ad imprese afgane mal retribuite. Tutto ciò ha finora fatto si che il grande sforzo economico messo in atto dall’occidente per la ricostruzione, non si sia tradotto in una riduzione della disoccupazione fra i giovani afgani (come sarebbe stato auspicabile) indispensabile per evitare loro un futuro di guerriglia e feroce repressione militare, ma abbia semplicemente contribuito ad incrementare gli utili delle grandi imprese di costruzione occidentali.
Sfarzose ambasciate e lussuose sedi di ONG ed imprese private occidentali, con il loro corredo di guardie del corpo, jeep blindate nuove fiammanti ed hotel extralusso, alimentano il contrasto stridente fra il business dell’Occidente in Afghanistan e la penosa situazione nella quale la popolazione afgana continua ad essere costretta a vivere. Dopo 7 anni dalla “liberazione” oltre 25 milioni di afgani sono costretti a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, l’aspettativa di vita è di 45 anni, il tasso di alfabetizzazione risulta del 34% e oltre il 55% della popolazione vive senza elettricità, nonostante durante questi 7 anni un considerevole fiume di denaro pubblico abbia continuato a scorrere dai paesi occidentali in direzione Kabul. Senza dubbio non mancano gli elementi sui quali è imperativo riflettere.