Estratto dal libro TAV IN VAL DI SUSA
Marco Cedolin
LA CRESCITA INFINITA
Lo “sviluppo” è simile ad una stella morta,
di cui ancora percepiamo la luce,
anche se si è spenta da tempo,
e per sempre.
Gilbert Rist
Il tema dell’Alta Velocità, oltre ad evidenziare in maniera definita i legami indissolubili che saldano fra loro le grandi oligarchie di potere, coese intorno ad un obiettivo unico che è costituito dalla ricerca sistematica del profitto, ci porta ad alcune riflessioni di più ampio respiro concernenti la gestione delle risorse e del territorio in una società complessa come quella contemporanea.
La gestione di tipo capitalista delle risorse economiche, finanziarie, sociali ed ambientali, propria dei sistemi politici occidentali si sta ormai diffondendo sempre più in tutti i paesi del mondo, in seguito ad un fenomeno di globalizzazione che tende ad uniformare le varie specificità nazionali, appiattendole su di un unico modello gestionale.
Al modello capitalista della borghesia industriale che accumulava profitto costruendo ricchezza si è sostituito quello del capitalismo di rapina che accumula profitti con la speculazione, la sopraffazione militare, la devastazione ambientale.
L’occidentalizzazione del mondo e il conformismo planetario impongono il saccheggio senza freni della natura e la distruzione di tutte le culture differenti.
La logica del profitto assurta a monovalore assoluto, l’esasperata tendenza al gigantismo, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di una cerchia sempre più ristretta di persone, l’abitudine a monetizzare ogni aspetto della realtà che ci circonda, l’assoluta incapacità di rapportarci con la natura, il prevalere del nozionismo sulla cultura, del vociare scomposto sull’ascolto, della violenza sul dialogo, sono solo alcuni aspetti della nostra società contemporanea.
La grande imprenditoria industriale, economica e finanziaria è stata oggetto di concentrazioni sempre più massicce (fusioni, incorporazioni ecc.) che hanno avuto la conseguenza di creare veri e propri colossi transnazionali (Corporation, Multinazionali) che sono in grado di controllare tanto i mercati quanto le scelte politiche dei singoli governi.
La tendenza esasperata alle privatizzazioni ha permesso ai grandi poteri privati di subentrare sempre più allo Stato nella gestione della cosa pubblica, a tutto svantaggio della collettività che sta pagando il conto sotto forma di maggiori costi dei servizi e minore qualità degli stessi.
Tutto ciò che risulta essere “piccolo” è stato liquidato come arcaico, inutile, desueto, sacrificabile, in ossequio ad una logica distorta che pone il “grande” come unico esempio di modernità, progresso, futuro.
Le piccole attività commerciali sono così diventate prima grandi magazzini e poi ipermercati, i negozi si sono trasformati in grandi catene di franchising, le piccole banche in grandi gruppi bancari, i piccoli coltivatori e allevatori hanno lasciato il posto alle grandi coltivazioni e ai grandi allevamenti a sfruttamento intensivo, i cinema alle multisala, la piccola imprenditoria edile è stata fagocitata dalle grandi imprese di costruzione, le quali a loro volta sono confluite in grandi gruppi o cooperative. Gli esempi potrebbero essere migliaia e ribadiscono sempre il concetto secondo il quale solo ciò che è grande può essere funzionale ad un modello di sviluppo basato su una logica che privilegia la dimensione e non la qualità.
Si tratta di una società dove ogni cosa è funzionale al mito della crescita, che visualizza gli uomini esclusivamente come produttori e consumatori, il consumo non risponde più alla soddisfazione di un bisogno, ma si caratterizza soprattutto come un mezzo di produzione. Quando le persone non percepiscono il bisogno di merci o servizi, è necessario che detto bisogno sia prodotto artificialmente attraverso l’uso (e l’abuso) della pubblicità.
Una società sacrificata al progresso, inteso come enfatizzazione della produzione, dove l’accrescimento degli scambi commerciali e del volume dei beni prodotti, rappresenta un valore di per sé, senza tenere nella minima considerazione le qualità dei beni e le conseguenze della loro produzione sulla socialità, sull’ambiente e sul vivere quotidiano di noi tutti.
Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di ciascuno di noi, il tessuto sociale è stato violentato in profondità, il piccolo commercio e la piccola imprenditoria (fiori all’occhiello della nostra economia nel periodo dell’espansione) hanno praticamente cessato di esistere, il libero mercato si è trasformato in una sorta di oligopolio controllato dalle multinazionali e il mondo del lavoro si sta trasformando ogni giorno di più in una terra di nessuno dove dominano la precarietà, l’incertezza e la disperazione.
Anche il linguaggio sta cambiando in profondità, le parole non hanno più una valenza specifica funzionale al proprio contenuto, ma sono diventate gusci vuoti privati di un significato intrinseco, adatti non a rappresentare un concetto ma semplicemente a soggiogare emotivamente l’interlocutore.
Quante volte guardando la televisione o leggendo i giornali c’imbattiamo in concetti quali “strategicità di un’opera”, “necessità di sviluppo”, “funzionale agli obiettivi di crescita”, “indispensabile alla ripresa economica”, “democraticizzazione di un popolo”, “recupero di competitività”, “maggiore flessibilità”, “mercato globale”, “grandi infrastrutture d’importanza internazionale”.
Si tratta di frasi fatte, luoghi comuni, esternazioni ad effetto che pur essendo prive di un reale significato sortiscono comunque il risultato voluto, poiché tendiamo ad essere influenzati dalla ridondanza del concetto, senza preoccuparci di scavare nel suo contenuto. Chi ha fatto l’esternazione non sarà mai in grado di spiegarci perché quella determinata opera è strategica o le motivazioni della necessità di sviluppo, oppure le ragioni per le quali una decisione è funzionale agli obiettivi di crescita o indispensabile alla ripresa economica. Nessuno sarà in grado di spiegarci come sia possibile esportare la democrazia, cosa significhi realmente recuperare competitività, quale sia l’importanza internazionale di un’infrastruttura o perché sia indispensabile avere maggiore flessibilità e quali siano i parametri di un mercato globale.
Nonostante ciò noi avremo metabolizzato l’importanza prioritaria ed imprescindibile del concetto, accettandolo come necessario ed indispensabile.
Un altro esempio del condizionamento che ogni giorno ci viene imposto tramite l’uso improprio delle parole è costituito da quei termini che vengono usati come sinonimo di modernità, pur non avendo di per se stessi alcuna valenza specifica.
Veloce, grande, globale, sostenibile, internazionale, imprescindibile, strategico, europeo, progresso, futuro, sviluppo, nuovo, crescita, competitività, prioritario, sono tutti termini che vengono con violenza ripetuti dai media in maniera martellante e ossessiva per dare ai concetti più svariati una patente di buono, bello e moderno.
E ancora “sviluppo sostenibile”, “ecologia industriale”, “crescita verde”, “produzione pulita”, “economia solidale”, “guerra pulita”, “globalizzazione dal volto umano”, sono tutte contraddizioni in termini che rivelano il tentativo di attribuire una funzione ecologica o sociale ad elementi che per la loro stessa natura mai potrebbero vantarla.
Costruendo il mito dell’onnipotenza della tecnica, sia essa scientifica o economica, si cerca di proporre come rimedio la causa stessa della malattia, nell’ottica di una visione riduttiva e regressiva dell’uomo, inteso solo come consumatore, tubo digerente e ingranaggio della macchina produttiva.
Ho aperto questa piccola parentesi concernente il linguaggio perché proprio attraverso di esso i grandi poteri politici economici e finanziari tentano di veicolare quello della crescita infinita come l’unico modello di sviluppo possibile e praticabile.
In realtà questa sorta di oligarchia preposta a prendere le decisioni e operare le scelte è talmente preoccupata ed ossessionata dall’obiettivo di mantenere la propria posizione di preminenza sociale, da avere perso ogni contatto con il mondo reale, con le persone, con il territorio e l’ambiente.
Gli oligarchi che accusano di arretratezza i cittadini della Valle di Susa, di Acerra, di Scanzano, di Forlì, definendoli nemici del progresso hanno solamente paura di guardare negli occhi il nuovo che avanza.
Sono piccoli anacronistici retaggi del passato, ricchi e potenti cavernicoli imbalsamati che non riescono ad immaginare il futuro se non come il perpetuarsi sistematico del passato. Tentano d’imporre con i manganelli e la prevaricazione un modello di sviluppo ispirato alla crescita infinita, senza tenere conto della realtà oggettiva che le risorse, la terra e l’ambiente sono realtà finite che pongono limiti invalicabili.
Scavano nuovi tunnel, costruiscono nuove strade, nuovi viadotti, nuovi ponti, nuove ferrovie, fingendo d’ignorare il fatto che l’unico tunnel dal quale dovremmo seriamente preoccuparci di uscire è quello del disastro ecologico/ambientale che abbiamo innescato attraverso il perseguimento di un progresso insensato che ci ha portato a fagocitare la natura e l’ambiente.
Parlano d’incrementi esponenziali del traffico, di milioni di tonnellate di merci, di raddoppio della produzione, senza rendersi conto che i cittadini quelle merci non potranno mai acquistarle perché grazie alle loro scelte non guadagnano più abbastanza nemmeno per arrivare alla fine del mese.
Immaginano un mondo nel quale si moltiplichi all’infinito il numero delle auto circolanti, dei camion, dei treni, delle navi, delle merci, delle industrie, dei grattacieli, delle centrali nucleari e termoelettriche, degli oleodotti, dei tralicci elettrici, delle antenne TV, dei beni di consumo, ma dimenticano che il mondo è finito, come il petrolio e la capacità del sistema ambiente di sopperire alla devastazione. Fra poco non ci saranno più prati da cementare, colline da spianare, montagne da perforare, terreni da asfaltare, fiumi da inquinare, aria da soffocare e mancherà anche il combustibile per fare funzionare le trivelle, le frese, le locomotive, i motori, i martelli pneumatici, le gru, le fabbriche.
Vaneggiano di progresso ma stanno costruendo una civiltà frenetica, priva di valori, votata all’ipercinetismo, all’insicurezza, alla precarietà, alla paura del futuro.
Perseguono la velocità degli spostamenti ed ignorano quella pensiero, costruiscono treni ed auto sempre più veloci, senza accorgersi che se non ci si ferma un attimo a riflettere fra poco non ci sarà più nessun posto in cui andare.
Guardano al mondo come ad una materia prima ed osteggiano coloro che riescono a vederlo come un organismo vivente, guardano alle persone come a delle risorse e le manganellano quando prendono coscienza di sé e chiedono di poter decidere del proprio futuro.
Inseguono un modello di sviluppo che in realtà non riesce più a progredire ma sta sortendo il solo effetto di riportare indietro la qualità della vita di tutti.
Sono loro gli arretrati, i nemici del progresso, i dinosauri incartapecoriti, non gli abitanti della Valle di Susa e tutti coloro in Italia e nel mondo che stanno prendendo coscienza di come questa non sia la strada giusta, in quanto destinata a non portare da nessuna parte.
Sono loro che guardano senza vedere e ascoltano senza sentire, impegnati a perpetuare l’unica logica che conoscono, quella delle speculazioni, dei giochi di potere, delle scalate societarie, degli intrighi di palazzo, della malversazione.
DECRESCITA E FUTURO
Non si tratta assolutamente di tornare indietro,
si tratta di deviare collettivamente,
prima che sia troppo tardi per farlo.
Paul Aries
Una società sana adatta il proprio stile di vita all’ambiente che la circonda, la stortura del nostro sistema attuale consiste invece nella pretesa di adattare l’ambiente al proprio stile di vita, assalendolo e violentandolo, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze derivanti da queste violenze che non si ripercuotono solamente in termini di devastazione ambientale, ma anche di giustizia ed equilibrio sociale, dimostrando come sopravvivenza biologica e sopravvivenza sociale siano elementi indissolubilmente legati fra loro.
L’unica strada percorribile passa attraverso il superamento dei concetti di modernità e di sviluppo, in quanto essi contengono implicitamente la volontà di mercificare i rapporti fra le persone e con la natura. Non possiamo, come scrive Nicholas Georgescu – Roegen, produrre frigoriferi, automobili o aerei migliori e più grandi, senza produrre anche dei rifiuti migliori e più grandi che contribuiranno ad accentuare i termini del problema.
Occorre necessariamente accostarsi ad un concetto di decrescita, intesa non come recessione o impoverimento, bensì come un’occasione per tutti, che sia funzionale ad un nuovo tipo di società, nella quale la qualità della vita, il tempo libero, le relazioni sociali, siano valorizzati e prevalgano sulla produzione e sul consumo di prodotti inutili e nocivi. Una società nella quale i valori economici siano ricollocati nella loro giusta funzione di semplice mezzo della vita umana e abbandonino quella posizione di assoluta centralità che li porta a rappresentare il fine ultimo della nostra esistenza.
La prospettiva della decrescita, accettata e meditata, non si pone come antagonista al mito della crescita, ormai senza futuro in quanto vittima delle sue stesse contraddizioni, bensì come alternativa alla recessione che sarebbe inevitabile conseguenza di un risultato di crescita negativa (che già oggi abbiamo iniziato a sperimentare) applicato ad una società che identifica nella crescita economica l’unico monovalore assoluto.
Entrare nell’ottica della decrescita significa innanzitutto aggiogarsi dall’immaginario economico che la pubblicità e le regole del modello consumistico hanno instillato nella nostra mente. Un immaginario che mette i beni di consumo e non la persona al centro della nostra esistenza e c’impone di ricercare il benessere e la felicità solo attraverso il successo economico, la competizione, il possesso delle cose.
Il benessere e la felicità si possono realizzare attraverso la soddisfazione di una quantità limitata di bisogni reali, anziché attraverso il soddisfacimento illusorio di un’infinita miriade di bisogni effimeri e indotti dal modello culturale dominante.
La vera ricchezza e la vera gioia allignano nella costruzione di relazioni sociali conviviali, nel godimento del tempo liberato, nella riscoperta della nostra natura umana, piuttosto che nella nevrotica bulimia che ci porta a fagocitare senza sosta quantità sempre maggiori di beni materiali, nel vano tentativo di riempire quei vuoti esistenziali che devastano la nostra interiorità. Come sottolinea Hervé Martin, “Una persona felice non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo marginalmente all’attività economica della società”.
Liberarsi dai condizionamenti psicologici che decenni di cultura dominante, ispirata al mito della crescita per la crescita e del progresso inteso come consumo e ragione ultima della nostra esistenza, hanno costruito nel nostro intimo è prerogativa imprescindibile. Questo poiché sarebbe impensabile immaginare un progetto di decrescita che si inneschi su un modello di società come quello attuale, imperniato esclusivamente sull’economia, sul lavoro e sul capitale. La popolazione, posta nell’impossibilità di perseguire l’enorme mole di stimoli indotti, non necessari ma percepiti come tali, perderebbe ogni punto di riferimento e si costruirebbero le prerogative per una situazione di caos sociale dalle conseguenze catastrofiche.
Solamente anteponendo nuovi valori a quelli attualmente dominanti e decolonizzando le nostre menti dall’egemonia che concetti come crescita e sviluppo detengono nel nostro immaginario, sarà possibile concepire e realizzare una società di decrescita serena, antitetica a quella dell’economia.
La cooperazione dovrebbe prevalere sulla competizione sfrenata, l’altruismo sull’egoismo, il piacere dello svago e dell’accrescimento culturale sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto per la qualità del nostro operato sull’efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, il piccolo sul grande e così via.
A questo punto sarebbe possibile pianificare la decrescita, ridurre al massimo l’impatto ambientale derivante dall’attività umana, ridimensionare l’enorme mole di spostamenti di uomini e merci e tutte le loro conseguenze negative, eliminare l’eccessiva invadenza della macchina pubblicitaria, contrastare la pratica che accelera artificialmente l’obsolescenza dei manufatti e la diffusione dei prodotti usa e getta, perseguire un nuovo rapporto, d’interscambio e non di aggressione fra l’uomo e la natura e fra uomo e uomo.
Il passaggio da una società capitalista, imperniata sul consumo e figlia del mito della crescita e dello sviluppo, ad una società più sobria e consapevole, votata ad una decrescita serena che armonizzi i nostri bisogni e le nostre attività con l’ambiente che ci circonda, riconoscendo la realtà oggettiva che le risorse naturali e il sistema terra sono entità finite e non possono perciò venire depauperate e violentate senza che ci si ponga dei limiti, è una sfida estremamente ambiziosa e delicata che non può essere affrontata con superficialità. Al tempo stesso si tratta di un passaggio obbligato se vogliamo scendere dolcemente e lentamente il declivio in maniera costruttiva, serena e non traumatica, anziché sprofondare con violenza nel baratro che ormai si pone minaccioso dinanzi ai nostri occhi.
Nessuna scelta in questo senso potrà mai provenire dall’oligarchia di potere dominante, interessata esclusivamente al perseguimento del profitto che trova possibilità di concretarsi solo in una società basata sull’incremento continuo della crescita e dei consumi.
La spinta verso il cambiamento dovrà avvenire necessariamente dal basso, dalla gente comune, dai cittadini, che iniziano a percepire la condizione di disagio all’interno delle loro realtà personali. La protesta contro la TAV in Valle di Susa e molte altre situazioni ad essa assimilabili, testimoniano un primo tentativo ancora in fase embrionale di esternare questo disagio e collocarlo al di fuori del microcosmo locale e personale nel quale è nata la percezione. Proprio per questa ragione occorre guardare a questi fenomeni, cercando di leggerli in profondità, con l’occhio disincantato di chi riesce a concepire il futuro come un qualcosa di diverso che non sia necessariamente una serie infinita di repliche del presente.
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