lunedì 31 marzo 2008

RUSSIATUNNEL

Marco Cedolin

Gli interessi finanziari derivanti dalla speculazione connessa alla costruzione delle grandi opere continuano a dimostrasi un collante straordinario in grado di superare qualunque barriera politica e ideologica. L’assoluto appiattimento dei nostri partiti politici, siano essi di derivazione liberista, comunista, post fascista, democristiana, socialista o repubblicana, riguardo alla necessità della costruzione di qualunque infrastruttura (TAV, Mose, inceneritori, rigassificatori, autostrade, viadotti, megatunnel, parcheggi sotterranei, centrali turbogas, a carbone ecc.) sta a dimostrarlo in maniera incontrovertibile. Il partito delle grandi opere non ha colore, tranne ovviamente quello dei soldi, così perfino la Russia e gli Stati Uniti, i più grandi antagonisti degli ultimi 60 anni, sembrano pronti a dimenticare ogni ruggine per mettere in cantiere il tunnel sottomarino più lungo del mondo che li unisca passando al di sotto dello Stretto di Bering.

Il progetto che il presidente russo Vladimir Putin si appresta a discutere con l’omologo americano Gorge W. Bush durante il vertice in programma domenica prossima sul Mar Nero, riguarda un tunnel sottomarino della lunghezza di circa 100 km e del costo previsto di oltre 41 miliardi di euro che unisca la Chukotka (estremo nord est della Russia) con l’Alaska, permettendo il trasporto delle merci dall’Europa all’america via terra e rendendo di fatto la Russia il fulcro del commercio internazionale.
Il principale artefice di un’opera fra le più ciclopiche al mondo potrebbe essere la società Infrastruktura di proprietà dell’oligarca russo e Governatore della Chukotka Roman Abramovich che proprio recentemente ha investito 170 milioni di dollari nell’acquisto, presso l’azienda tedesca Herrenknecht, della più grande macchina scavatrice che sia mai stata costruita. Una mega trivellatrice che possiede un diametro di 19 metri, enorme se confrontato con i 7 metri delle macchine che hanno scavato l’Eurotunnel che corre sotto la Manica.
Il progetto del mega tunnel fra Russia ed Usa che sembra sia già stato oggetto di precedenti discussioni ed accordi fra i vertici dei due paesi, contemplerebbe infrastrutture sia per il traffico su gomma che su rotaia, nonché per il trasporto di petrolio, gas ed energia elettrica. Gli esperti interpellati sembrano prevedere (con molto ottimismo) un traffico merci potenziale di 100.000 tonnellate/anno lungo l’asse del tunnel, che dovrebbe agevolmente comportare un rientro in tempi relativamente brevi dell’enorme investimento, destinato a raddoppiare se non triplicare in virtù dell’altissimo numero d’infrastrutture di collegamento (autostrade, ferrovie, gasdotti, oleodotti) la cui costruzione si renderebbe necessaria. Proprio in virtù di ciò Cina, India, Corea e Giappone si sono già dichiarate favorevoli all’idea e disponibili a partecipare in prima persona al progetto.

Pur senza entrare nel merito dei devastanti impatti ambientali che potrebbero venire determinati da un’opera di queste dimensioni, non si può astenersi dall’esternare alcune perplessità nei confronti del progetto di Putin il cui unico scopo sembra quello di arricchire l’oligarchia delle costruzioni che prospera sulle spalle dei contribuenti. La pesante situazione di recessione a livello mondiale, il sempre più grave problema dei mutamenti climatici ed il progressivo esaurimento delle risorse energetiche fossili, non sembrano essere infatti gli elementi ideali per giustificare un progetto colossale, estremamente costoso in termini monetari ed energetici, finalizzato a far correre nel 2020 in maniera sempre più schizofrenica le merci in giro per il mondo.
Le previsioni di traffico merci operate dagli esperti sembrano costruite ispirandosi unicamente all’incremento della movimentazione avvenuto nei decenni passati, mentre la situazione attuale dei mercati e l’alto prezzo del petrolio portano ad ipotizzare volumi di scambio molto più contenuti nei decenni futuri, il che sposterebbe indefinitamente nel tempo la prospettiva di ritorno economico dell’investimento con il grave pericolo di riproporre un’operazione fallimentare come si è rivelata quella di Eurotunnel.
A pagare alla fine sarebbero come sempre i cittadini, dal momento che l’opera ciclopica verrebbe finanziata in larga parte attraverso il denaro pubblico, rendendoli affamati ed indebitati ancora più di quanto non lo siano già adesso.

giovedì 27 marzo 2008

IMPREGILO DAI RIFIUTI DI NAPOLI AL NEVADA

Marco Cedolin

La multinazionale Impregilo, primario gruppo italiano nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria, il cui pacchetto di maggioranza è attualmente nelle mani delle famiglie Benetton, Gavio e Ligresti, continua a tenere fede al suo ruolo di leader nella costruzione delle grandi opere e nella creazione di altrettanto grandi devastazioni ambientali e sociali. Sono infatti una sequela infinita le tragedie ambientali, i dissesti del territorio, le violazioni dei diritti umani, i conflitti politico sociali, le deportazioni e gli esodi forzati di popolazione e gli sprechi di risorse finanziarie ed umane direttamente o indirettamente imputabili all’operato della multinazionale italiana.

Già fra il 1976 e il 1982 Impregilo (allora Impresit-Cogefar) partecipò alla costruzione della diga Chixoy in Guatemala, un progetto il cui costo finale di 800 milioni di dollari si rivelò del 300% superiore alle previsioni e determinò un’espansione del debito pubblico del paese centroamericano nell’ordine del 45% del suo intero ammontare. I finanziamenti provennero dalle casse della Banca Mondiale e della Banca Interamericana di Sviluppo. Gli abitanti dei territori interessati dal progetto furono costretti al trasferimento coatto e di fronte alla loro riluttanza ad abbandonare le proprie terre e le proprie case si scatenò una campagna di terrore durante la quale vennero trucidate oltre 400 persone. La produzione elettrica della diga non è mai andata oltre il 70% delle sue potenzialità ed a causa dell’accumulo di sedimenti nell’invaso gli esperti calcolano che entro una ventina d’anni l’impianto non sarà più in grado di funzionare.

Fra il 1983 ed il 1994 Impregilo insieme alla francese Dumaz partecipò alla costruzione della diga di Yacyretà che sorge sul fiume Paranà al confine fra Argentina e Paraguay sulla base di un contratto da 1,4 miliardi di dollari. I costi del progetto aumentarono di 4 volte per la parte ingegneristica e di 7 volte per quella amministrativa, determinando un costo finale dell’energia prodotta di tre volte superiore a quello medio nazionale. La produttività energetica dell’impianto è solamente il 60% di quella prevista e la costituzione dell’invaso che ha sommerso 100.000 ettari di terreni incontaminati ha determinato l’allontanamento dalle proprie case di 70.000 persone relegate a “sopravvivere” su 9000 ettari di terreno altamente degradato.


Nel 1997 Impregilo partecipò in Nepal al Consorzio deputato alla costruzione della diga di Kaligandaki grazie ad un finanziamento dell’Asian Development Bank. L’opera si distinse soprattutto per le gravi irregolarità del progetto, gli effetti ambientali devastanti e la grande quantità d’incidenti mortali occorsi agli operai impegnati nella costruzione.

Sempre negli anni 90 Impregilo partecipò in qualità di capofila all’associazione d’imprese che costruì la diga Katse in Lesotho. Lo scopo dell’opera fu quello di deviare l’acqua del fiume Malibamats’o ( risorsa naturale indispensabile per il Lesotho) convogliandola in territorio sudafricano per mezzo di due gallerie. Le conseguenze della diga Katse furono oltremodo devastanti sia sul piano sociale che su quello ambientale. Il bacino cancellò 2000 ettari di terra coltivata e 4500 ettari adibiti a pascolo e di conseguenza migliaia di famiglie della locale etnia Basotho che vivevano di agricoltura e pastorizia furono private delle risorse necessarie alla loro sussistenza. L’enorme pressione generata dall’acqua contenuta nell’invaso determinò l’apertura di una faglia di 1,5 km nel villaggio di Mapeleng e dopo la conclusione del riempimento nel mese di ottobre 1995 si verificarono oltre 90 terremoti nell’arco di soli 16 mesi. Nel mese di aprile 2005 in Lesotho iniziò un processo nei confronti di Impregilo, per corruzione in merito all’aggiudicazione di appalti, con una richiesta di risarcimento di circa 1,5 milioni di euro.

Impregilo sta attualmente partecipando in Islanda al ciclopico progetto Karahnjukar che prevede la costruzione di 9 dighe in terra, fra cui la più imponente d’Europa, una centrale idroelettrica da 690 megawatt ed una mega fonderia in grado di produrre 320.000 tonnellate di alluminio l’anno, contro la volontà del 65% dei cittadini islandesi che hanno espresso la propria contrarietà all’operazione. La multinazionale italiana che ha già iniziato la propria opera di devastazione facendo saltare in aria con l’ausilio di cariche esplosive il più spettacolare canyon dell’Islanda è accusata da parte dell’Associazione ecologista Savingiceland di comportamenti intimidatori nei confronti degli ecologisti e vessatori verso i propri dipendenti.

In Italia Impregilo è una presenza di spicco fra le imprese che stanno procedendo alla costruzione delle tratte TAV, nonché imputata in quanto parte del consorzio Cavet, nel processo che si sta tenendo a Firenze a causa dei gravissimi danni ambientali provocati dai cantieri dell’alta velocità nel Mugello. Impregilo ha anche partecipato alla costruzione delle metropolitane di Milano, Roma, Napoli e Genova, alle infrastrutture aeroportuali di Fiumicino e Capodichino, è artefice di larga parte della rete autostradale nazionale, ha ottenuto l’appalto per la realizzazione di un villaggio residenziale per gli addetti della base aeronavale di Sigonella in Sicilia, risulta General Contractor nel progetto del ponte sullo Stretto di Messina ed ha provveduto a costruire perfino l’Istituto Europeo di Oncologia creato nel 1994 dall’ex ministro della Salute Umberto Veronesi che recentemente si è distinto per la propria “crociata” in favore degli inceneritori.
Ma soprattutto Impregilo risulta fra i principali responsabili della drammatica emergenza rifiuti nel napoletano avendo gestito per oltre 5 anni attraverso le controllate Fibe s.p.a e Fibe Campania s.p.a. l’intero ciclo di raccolta e smaltimento dei rifiuti in Campania nonché la controversa realizzazione dell’inceneritore di Acerra. I risultati della gestione furono talmente disastrosi da indurre Impregilo a defilarsi dal “brutto affare” della spazzatura, aiutata in questa operazione dal decreto legge n. 245 del 30 novembre 2005, varato dal Consiglio dei Ministri del governo Berlusconi per fronteggiare l’emergenza dei rifiuti in Campania, il quale prevedeva la risoluzione “ope legis” dei contratti con le società appaltatrici. Proprio in relazione allo scandalo dei rifiuti napoletani Impregilo, insieme al Presidente della Regione Campania Antonio Bassolino è stata rinviata a giudizio e sarà parte in causa nel processo che inizierà il 14 maggio davanti al tribunale di Napoli.

Nonostante l’affare dei rifiuti napoletani, nel merito del quale la magistratura aveva provveduto a congelare i conti correnti italiani del gruppo per un valore di 750 milioni di euro e la temporanea sospensione della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina per decisione del governo Prodi avessero indotto una grave crisi di liquidità finanziaria, Impregilo grazie all’aiuto dei grandi gruppi bancari sembra essere tornata in salute, pronta per sempre nuove sfide in giro per il mondo.
Lo scorso 25 marzo 2008 la multinazionale italiana si è infatti aggiudicata la gara promossa dal Southern Nevada Water Authority (SNWA) per la realizzazione di un articolato sistema di prelievo e trasporto delle acque del Lake Mead, uno dei più grandi laghi artificiali degli Stati Uniti situato a circa 30 chilometri a sud-est della città di Las Vegas nel Nevada, al fine di aumentare la fornitura di acqua per usi potabili e domestici dell'area urbana di Las Vegas, per un valore della commessa pari a 447 milioni di dollari. Si tratta di un progetto estremamente complesso che prevede la realizzazione a circa 100 metri di profondità sul fondo del lago di una presa d'acqua, la costruzione di un tunnel della lunghezza di circa cinque chilometri e lo scavo di un pozzo di accesso profondo circa 200 metri. L’avvio dei lavori avverrà a breve mentre la conclusione dell’opera è prevista per la seconda metà del 2012, sempre che non venga adoperato lo stesso metodo utilizzato per l’inceneritore di Acerra, la cui costruzione iniziò nel 2004 con promessa di consegna entro 300 giorni, mentre nel 2008 l’impianto risulta ancora alla ricerca di qualcuno che accetti l’appalto per portarlo a termine.

lunedì 24 marzo 2008

UNA FOLLIA CHIAMATA DUBAI

Tratto da Il Consapevole N°8

Marco Cedolin

Nessun luogo al mondo è in grado di rappresentare la filosofia della “crescita infinita”, che dalla seconda metà del XX secolo anima l’uomo moderno, in maniera così adamantina quanto la città di Dubai.
La capitale di uno dei sette stati che compongono gli Emirati Arabi Uniti sembra ergersi a terminale delle ambizioni, spesso intrise di utopia, che permeano la nostra società.
Desiderio di dominio assoluto sulla natura, ossessivo edonismo consumista, continua ricerca del gigantismo strutturale, esaltazione della tecnologia quale strumento onnipotente, celebrazione dell’individualismo di massa, sono tutti atteggiamenti che sembrano fondersi magicamente fra le mura di quello che molti considerano un vero “paradiso artificiale”.
Dubai rappresenta l’ inseguimento incessante del primato, la perdita di ogni senso del limite, la proiezione verso l’esterno di tutti i bisogni umani, la gratificazione vissuta nel soddisfacimento del “capriccio”, nell’appartenenza ad una realtà artefatta tanto più affascinante quanto più artificiosa.

Non appena ci si accosta a Dubai si percepisce l’impressione di osservare un luogo di fantasia collocato a metà fra le “città del futuro” tanto care alla letteratura fantascientifica degli anni 70 ed i fumetti di Walt Disney che ci accompagnavano da bambini. L’intrecciarsi delle strutture già esistenti con quelle in fase di realizzazione e con la molteplicità dei progetti che sono sul punto di prendere il via, costituiscono un conglomerato in grado di suscitare tutta una ridda di sensazioni che traslano dal meravigliato stupore fino al preoccupato sgomento.
Elementi del passato e scorci di futuro s’intrecciano in questa sorta di “non luogo” dove tempo e spazio assurgono al ruolo di entità empiriche in precario equilibrio fra loro.

L’avveniristico progetto delle tre “Torri danzanti”, al 65° piano delle quali una clientela esclusiva potrà pasteggiare nel ristorante panoramico dominando dall’alto l’intera città, si troverà a convivere con la fedele riproduzione dei giardini pensili di Babilonia.
La Torre Araba Burj Dubaj, un mastodontico grattacielo residenziale che s’innalzerà fino a 800 metri tentando di entrare nelle nuvole, sovrasterà la Grande Muraglia Cinese riprodotta fin nei minimi particolari.
Il Burj Al Arab, l’hotel più prestigioso del mondo, costruito a forma di vela e accreditato di ben 7 stelle, che si erge per 312 metri al di sopra di un’isola artificiale,ricoperto da milioni di microlampadine che la notte passano da una sfumatura di colore all’altra, si specchierà a breve nella ricostruzione certosina del Faro di Alessandria.
Dubai Marina, una città in grado di ospitare più di 120.000 persone, costata circa 10 bilioni di dollari e interamente costruita su una piattaforma galleggiante, si troverà a coesistere con l’imponente presenza della piramide di Cheope.

L’atavico desiderio di ascendere alla grandezza dell’Olimpo per godere del potere degli dei e plasmare la natura a proprio piacimento, trova a Dubai la propria consacrazione nell’ossessiva e illusoria ricerca di dominio sull’ambiente circostante, coniugata con il forzato gigantismo delle forme e delle situazioni.
The World è un progetto fantascientifico i cui lavori sono in fase di completamento e consiste nella creazione, nel Golgo Persico al largo di Dubai, di 300 isole artificiali composte in modo tale che viste dall’alto formino l’intero planisfero terrestre. Tali isole saranno messe in vendita ad un prezzo che varierà (in funzione delle dimensioni) da un minimo di 6,2 a un massimo di 36,7 milioni di dollari.
Palm Island è un altro progetto che comporterà la creazione di 125 km. di costa artificiale attraverso la costruzione di isole disposte in modo tale da formare un albero di palma. In questo complesso troveranno spazio 500 appartamenti, 2000 ville, 25 hotels e 200 negozi di lusso.
Hydropolis sarà un hotel sottomarino (interamente costruito e montato in Germania) che verrà immerso al largo di Dubai, proponendosi come primo vero tentativo d’inurbamento dei fondali marini. I facoltosi e audaci clienti, veri e propri precursori di un nuovo modo di “abitare” il pianeta, fruiranno di 220 camere dotate di ampie pareti vetrate attraverso le quali sarà possibile provare l’ebbrezza di essere parte integrante del mondo degli abissi.
Fra pochi mesi dovrebbero iniziare i lavori per la costruzione del “grattacielo girevole” progettato in Italia e alimentato attraverso innovativi sistemi che sfruttano l’energia eolica e solare.
All’interno di questa struttura alta 250 metri ognuno dei 59 piani ruoterà in maniera indipendente. Gli ospiti di questa futuristica “giostra per adulti” potranno così farsi beffa dei punti cardinali godendo dalla finestra della propria stanza sia della luce rosata dell’aurora che del fascino malinconico del tramonto.

Ma quali dei dopo avere cambiato la geografia costruendo isole ed arcipelaghi, rivisitato l’asse temporale donando nuova vita alle meraviglie del passato, sfidato le leggi della fisica attraverso costruzioni ardite e avveniristiche si rassegnerebbero a restare schiavi di una monotonia climatica che propone spiagge assolate, cielo sereno e temperatura costantemente intorno ai 35°?
Lo Sky Dubai è senza dubbio la più grande follia di questa città nella quale anche il concetto di latitudine finisce per diventare relativo.
L’idea di fare coesistere nello stesso luogo (non luogo) l’atmosfera balneare ferragostana con quella di una settimana bianca natalizia, travalica qualunque confine della logica ponendo il “capriccio” al centro di un mondo dove ogni elemento della natura viene composto e scomposto a piacimento.

Sky Dubai è una struttura che occupa 22.500 mq. e contiene 6.000 tonnellate di neve, con l’ambizione di riprodurre in tutto e per tutto il clima e le attrazioni proprie di una stazione sciistica invernale. Utilizzando tecniche assimilabili a quelle usate per il normale condizionamento dell’aria, la temperatura esterna viene abbassata di una quarantina di gradi fino ad oscillare fra i -8° ed i -2° al fine di permettere la creazione di vere e proprie “nevicate artificiali”ed il costante mantenimento dell’innevamento.
Dentro Sky Dubai le montagne artificiali s’innalzano fino ad 85 metri d’altezza, ci sono seggiovie coperte di ghiaccioli, piste da sci e da snowboard lunghe fino a 400 metri, una caverna di ghiaccio da 3000 mq dedicata ai bambini, collinette deputate alle slitte e ai toboga e perfino gli alberi rigorosamente di plastica per evitare il pericolo d’incendi.
I facoltosi villeggianti potranno così evitare che la noia sopravvenga ad intristire le loro vacanze, alternando mattinate passate a cuocersi sotto il solleone con pomeriggi vissuti dentro le tute da sci, con ai piedi gli scarponi e in testa il berretto di lana. Le bibite e le granite consumate in spiaggia o sui bordi delle piscine lasceranno spazio alle cioccolate bollenti e al vino speziato (rigorosamente analcolico) da suggere adagiati sulle poltroncine del St. Moritz Cafè, mentre lo sguardo indugia sul panorama immacolato dell’inverno.

Solo attraverso la follia, intesa come sublimazione dell’irrazionale e ricerca di una dimensione metafisica è forse possibile comprendere il senso di un’immensa proiezione onirica quale la città di Dubai. Enormi risorse energetiche e monetarie dissipate nell’utopistico tentativo di sovvertire tutte le leggi della natura, inseguimento dello spreco vissuto come elemento di esclusività, spasmodica ricerca di una grandezza solo esteriore, nel velleitario tentativo di sottrarci alla nostra inesorabile condizione di piccoli uomini.

mercoledì 19 marzo 2008

NO TAV E DECRESCITA

Marco Cedolin
Tratto dal libro "Proposta di un programma politico per la decrescita" Autori Vari - Editori Riuniti - Roma 2008 .

Mi è accaduto più volte di domandarmi e sentirmi domandare quante e quali siano le consonanze fra la lotta contro il TAV che portiamo avanti noi valsusini e il pensiero della decrescita, del quale Maurizio Pallante ritengo sia uno degli interpreti più brillanti e concreti.
In realtà quando 15 anni fa qui in Val di Susa un esiguo gruppo di cittadini, esperti ed ambientalisti iniziò ad opporsi al progetto del treno veloce, concetti come quelli di decrescita o democrazia partecipata erano in Italia semisconosciuti e nessuno fra coloro che avevano intrapreso tale battaglia poteva nutrire velleità di questo genere. Né tanto meno poteva supporre che la lotta NO TAV avrebbe nel tempo acquisito una rilevanza tale da arrivare a rivestire un ruolo di “esempio” per chiunque oggi in Italia si batta contro le grandi opere e le nocività.

Coloro che per primi in Valsusa iniziarono ad opporsi al TAV erano semplicemente un gruppo di persone preoccupate per le sorti del territorio in cui vivevano, che poste di fronte ad un progetto devastante avevano iniziato ad accumulare conoscenze sull’argomento, a porsi delle domande, a sviluppare il proprio senso critico. In Val di Susa in quegli anni si stava ancora completando la costruzione dell’autostrada A32 Torino - Bardonecchia, un’opera altamente impattante per il territorio, la cui opportunità era stata giustificata attraverso il nobile proposito di velocizzare e favorire il traffico dei mezzi pesanti, liberando in questo modo le statali ed i paesi dall’ingombrante ed inquinante passaggio dei TIR. Prima ancora che l’autostrada fosse interamente terminata si stava già progettando una nuova opera ancora più enorme ed impattante che secondo le parole dei proponenti avrebbe avuto lo scopo di spostare quegli stessi TIR dall’autostrada ai vagoni dei nuovi convogli ad alta capacità. Chiaramente i conti non tornavano ed il cortocircuito logico risultava più che evidente. Perché mai spendere miliardi, deturpare una valle alpina con colate di cemento e gallerie, condannare gli abitanti ad anni e anni di sofferenza e disagio a causa dei lavori per la costruzione di un’autostrada che prima ancora di essere terminata sarebbe stata sostituita nella sua destinazione d’uso dal nuovo progetto di una linea ferroviaria ad alta velocità ancora più impattante e costosa, il tutto in un territorio altamente antropizzato che già possedeva una linea ferroviaria internazionale a doppio binario sottoutilizzata?

Porsi delle domande è sempre indice d’intelligenza ed i primi NO TAV oltre che lungimiranti si dimostrarono molto arguti nel ricercare le proprie risposte attraverso lo studio approfondito dei progetti (spesso reperiti con estrema difficoltà a causa dell’ostracismo sistematico di cui erano fatti oggetto), l’analisi del territorio, il lavoro di esperti competenti, senza cedere alla tentazione di lasciarsi incantare dalle sirene del circo mediatico che al soldo del potere industriale e di quello politico, dispensava a piene mani dati falsi ed informazioni completamente fuorvianti e disancorate dalla realtà.
Quello dei primi NO TAV fu un lavoro gravoso e difficile, portato avanti con dispendio di tempo, denaro ed energie, spesso nell’indifferenza generale dei loro concittadini e di fronte all’aperta ostilità della stampa e della politica. Nonostante ciò man mano che gli anni passavano, i risultati di questo impegno iniziarono a produrre i propri frutti. Le tante serate informative passate ad illustrare le negatività dei progetti, a fare sentire tramite gli altoparlanti il rumore del TAV, a condividere con gli altri cittadini dubbi e domande, non si dimostrarono uno sforzo inutile, così come di estrema utilità si rivelò la grande mole di studi, di pubblicazioni, di libri che man mano nacquero sull’argomento.
I cittadini della Valsusa acquisirono nel tempo, quasi per osmosi, lo stesso atteggiamento proprio a coloro che avevano iniziato la battaglia, arrivando ad essere non oggetto terminale dell’informazione ma soggetto attivo dell’informazione stessa, attraverso la partecipazione ed il confronto. I NO TAV valsusini iniziarono a crescere nel numero man mano che cresceva il loro bagaglio di conoscenza e l’assunzione di consapevolezza costituì a sua volta stimolo per la ricerca di nuove conoscenze da condividere con gli altri.

La dimostrazione di questa piccola “anomalia genetica” che per molti versi rende unici i valsusini e tanti problemi sta creando ai grandi potentati economici e finanziari e agli uomini politici che li servono fedelmente, si può riscontrare semplicemente facendo una gita in Valle di Susa e passando qualche ora a discorrere con gli abitanti. Resterete stupiti ascoltando le parole del macellaio che sciorina i dati e le caratteristiche idrogeologiche del territorio meglio di quanto non facciano generalmente i geologi professionisti, dimostrando in maniera incontrovertibile come il progetto del TAV oltre a perforare montagne ricche di amianto ed uranio prosciugherà gran parte delle falde acquifere e stravolgerà gli equilibri idrogeologici dell’intera valle, mettendo a repentaglio l’approvvigionamento idrico di molti comuni ed aumentando in maniera esponenziale il rischio di disastrose alluvioni. Spalancherete la bocca di fronte ad un operaio metalmeccanico che disquisisce d’infrastrutture ferroviarie e trasporti con proprietà di linguaggio e cognizione di causa superiori a quelle degli ingegneri strapagati delle ferrovie, spiegandovi come l’intero progetto del TAV in Italia sia una bufala di proporzioni colossali che butterà alle ortiche 90 miliardi di euro del contribuente per costruire un’infrastruttura ciclopica che non sarà in grado di rispondere a nessuna delle necessità reali del nostro paese. Rimarrete in ossequioso silenzio dinanzi all’impiegato del comune che a differenza di molti oncologi omertosi, in quanto a libro paga dei grandi poteri, vi illustrerà tutti gli effetti dell’amianto sulla salute dell’uomo, arrivando a spiegarvi come quando si parla di amianto non esistano soglie di tollerabilità in quanto anche una sola fibra se inalata da un soggetto predisposto alla malattia può indurre a distanza di una ventina di anni l’insorgenza del mesotelioma pleurico che nel 100% dei casi conduce alla morte entro pochi mesi dal momento della diagnosi. Strabuzzerete gli occhi dinanzi all’insegnante di scuola materna che vi ragguaglierà, come tanti economisti al soldo dei potenti si sono dimenticati di fare, sull’assoluta mancanza di prospettive di ritorno economico del progetto TAV Torino – Lione. Non esistono nella realtà i passeggeri e le merci da trasportare, gli unici due collegamenti diretti giornalieri fra Torino e Lione sono stati da tempo soppressi per mancanza di passeggeri ed il traffico merci sulla linea storica, in costante calo, si aggira oggi sui 5 milioni di tonnellate/anno, a fronte dei 40 milioni di tonnellate/anno indispensabili perché parlare di TAV possa avere economicamente un senso. Avrete ormai imparato a non stupirvi più di nulla quando un normale pensionato vi renderà partecipi dell’evidenza che in una valle alpina larga mediamente 1,5km, all’interno della quale sono già presenti un’autostrada, una linea ferroviaria internazionale a doppio binario, un fiume, 2 statali e alcune strade provinciali, un’infrastruttura come il TAV proprio non potrebbe trovare posto, se non al prezzo di ridurla allo stato di mero corridoio di transito. Qui in Valsusa transitano già oggi il 35% delle merci che attualmente valicano le Alpi e noi abbiamo il diritto di praticare l’agricoltura, l’allevamento, l’accoglienza turistica, vogliamo costruire delle prospettive di vita per il nostro futuro e quello dei nostri nipoti, non morire in un corridoio strapieno di veleni, vi dirà mentre starete per accomiatarvi, dopo avere ormai maturato la convinzione che in questo modo d’intendere il progresso ci sia qualcosa di profondamente sbagliato.

Proprio attraverso l’acquisizione della conoscenza e del sapere, attinti a piene mani dal lavoro di chi aveva iniziato a “studiare” in prima persona i progetti del treno ad alta velocità e non dalle parole false e fuorvianti dispensate dalla stampa e dalla TV, i NO TAV valsusini sono riusciti nel tempo ad emanciparsi dai dogmi del pensiero dominante fino ad arrivare a mettere in dubbio oltre alla buona fede di politici, industriali, giornalisti e pseudo scienziati dai lauti stipendi, i fondamenti stessi di una società costruita sul mito della crescita e dello sviluppo. Questo poiché la conoscenza induce per forza di cose l’assunzione di consapevolezza e la creazione di uno spirito critico che una volta nato spazierà necessariamente al di fuori del contesto che lo ha ingenerato.

Il macellaio che ha maturato conoscenze in campo geologico non potrà limitarsi a riflettere sul disastroso impatto ambientale determinato dalle gallerie del TAV nel Mugello, la cui costruzione ha dissipato 100 miliardi di litri di acqua di montagna e prosciugato in maniera irreversibile decine di pozzi, sorgenti e torrenti, ben comprendendo che la stessa situazione, magari amplificata, verrebbe a determinarsi anche in Valle di Susa nel caso in cui l’opera fosse portata a compimento. Una volta in possesso della conoscenza egli sarà costretto giocoforza a confrontarsi con il problema della cementificazione indiscriminata del territorio, delle trivellazioni petrolifere in Val di Noto, della violenza con cui sistematicamente i “costruttori del progresso” fanno scempio dell’ambiente in cui viviamo, nel nome della crescita e dello sviluppo. L’operaio metalmeccanico diventato esperto di ferrovie e trasporti, dopo aver realizzato che il TAV è un’opera tanto inutile quanto costosa, non potrà esimersi dal domandarsi per quali ragioni in una realtà come quella attuale, dove si paventa a breve termine il progressivo esaurimento delle fonti energetiche fossili e la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera sta innescando mutamenti climatici dagli effetti potenzialmente catastrofici, si continuino a progettare infrastrutture estremamente invasive per far correre mezzi di locomozione altamente energivori ed inquinanti, quando fra 20 o più anni i lavori di costruzione saranno terminati e la situazione contingente si rivelerà presumibilmente molto più grave di quella odierna.
L’impiegato comunale che ha studiato gli effetti delle sostanze tossiche sulla salute dell’uomo, dopo avere preso coscienza della ferale pericolosità dell’amianto e dell’uranio sarà costretto a guardare intorno a sé. Scoprirà allora che in Italia stanno nascendo come funghi nuovi megainceneritori (impropriamente definiti termovalorizzatori e finanziati attraverso il denaro pubblico) che oltre a scaricare nell’atmosfera immensi quantitativi aggiuntivi di anidride carbonica emettono diossina, furani, idrocarburi policlici, acidi inorganici, ossido di carbonio e nanoparticelle finissime che sono altamente patogene e non vengono rilevate dagli strumenti di controllo, né bloccate dai filtri degli impianti. Si accorgerà che nel bel mezzo della Valle di Susa, fra i comuni di Bruzolo e San Didero, l’acciaieria Beltrame continua a disperdere nell’ambiente quantitativi di diossina equivalenti alle emissioni di 20 megainceneritori e lo fa con l’Autorizzazione ambientale integrata (Aia) della Provincia di Torino. Percepirà le schizofreniche contraddizioni che appartengono ai pifferai del pensiero dominante. Politici, scienziati, giornalisti, e grandi poteri economici e finanziari che individuano nei mezzi di trasporto di merci e persone una delle principali cause dell’effetto serra e delle malattie derivanti da inquinamento ambientale e sostengono con grande enfasi progetti di limitazione del traffico automobilistico metropolitano e campagne di rottamazione delle auto più inquinanti finanziate attraverso il denaro del contribuente. Pifferai che dopo avere lanciato l’allarme ed averlo diffuso attraverso mirate campagne mediatiche, con altre campagne mediatiche altrettanto mirate esaltano la bellezza della globalizzazione, la necessità di aumentare la crescita e lo sviluppo mediante lo spostamento di sempre più merci e persone che dovranno coprire distanze sempre più lunghe e farlo in tempi sempre più brevi. Pifferai che propongono come elementi imprescindibili del progresso la costruzione di nuove autostrade, nuove gallerie, nuovi viadotti, nuove linee TAV, finalizzate ad aumentare il numero dei mezzi di trasporto in circolazione, la loro velocità e pertanto la possibilità di coprire distanze sempre maggiori nella stessa unità di tempo. Ma non erano proprio i mezzi di trasporto i primi nemici da combattere in quanto fra i maggiori responsabili dell’effetto serra e dei decessi per inquinamento?
L’insegnante di scuola materna che ha preso coscienza di tante nozioni di economia, arrivando a scoprire il disastroso rapporto costi/benefici delle linee TAV e il machiavellico sistema di “finanza creativa” attraverso il quale è stata fino ad oggi finanziata l’opera contraendo debiti a “babbo morto” che inevitabilmente ricadranno sulle future generazioni, non potrà estraniarsi dalla realtà che la circonda. Non tarderà a comprendere come una società fondata sull’incremento del Pil e sulla spasmodica necessità di perseguire la crescita infinita in un mondo finito, sarà per forza di cose destinata a collassare, quando dopo avere cementificato anche l’ultimo metro quadrato di territorio non potrà più crescere, pur rimanendo la crescita prerogativa imprescindibile per la sua esistenza.
Il pensionato che ha accumulato conoscenze tecniche e scientifiche nell’intento di difendere il futuro dei propri nipoti, si accorgerà che in Italia molte altre persone stanno facendo la stessa cosa. A Brescia dove il futuro è minato da un megainceneritore, a Vicenza dove è condizionato dalla costruzione della nuova base militare americana Dal Molin, a Serre dove l’ennesima velenosa discarica lo ammorberà con l’insorgenza di tumori, a Civitavecchia dove una centrale a carbone “entrerà” nei polmoni delle nuove generazioni, a Bassano del Grappa dove a rubare il futuro ci pensano una zincheria e la mafia che la sostiene, ad Acerra dove un nuovo megainceneritore sta per sorgere in un’area già oggi simile a un girone dell’inferno dantesco, tanto è alta l’incidenza delle patologie tumorali derivanti dall’inquinamento del suolo e dell’aria, a Civitavecchia dove la nuova Centrale Turbogas avvelenerà il territorio arrivando perfino a mutare il microclima della zona. Il pensionato si renderà conto di non essere più solo e condividerà la propria battaglia con quelle degli altri, le proprie conoscenze con le loro e quasi senza rendersene conto avrà maturato nuove consapevolezze.

La Presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso e il sindaco di Torino Chiamparino, insieme ad un immenso stuolo di uomini politici di ogni colore, industriali, sindacalisti, giornalisti, opinionisti, pseudo scienziati, sociologi ed esperti di comunicazione, hanno più volte etichettato i NO TAV valsusini come nemici del progresso in preda alla sindrome Nimby (non nel mio giardino) tentando in questo modo di screditarne l’immagine ed esorcizzare la valenza della loro lotta, attribuendole caratteristiche riduttive ed egoistiche.
La vera sindrome in realtà è quella del potere che costringe tutti costoro ad inseguire ad oltranza il mito della crescita e dello sviluppo, nella speranza di rimanere attaccati un giorno di più alle proprie poltrone, anche di fronte all’evidenza che si tratta di una strada sbagliata ormai non più praticabile. Sono loro gli arretrati, i nemici del progresso, i dinosauri incartapecoriti, non gli abitanti della Valle di Susa e tutti coloro che in Italia stanno prendendo coscienza di come questa non sia la strada giusta, in quanto destinata a non portare da nessuna parte.
Sono loro che guardano senza vedere e ascoltano senza sentire, impegnati a perpetuare l’unica logica che conoscono, quella delle speculazioni, dei giochi di potere, delle scalate societarie, degli intrighi di palazzo, della malversazione. Vaneggiano di progresso ma stanno costruendo una civiltà frenetica, priva di valori, votata all’ipercinetismo, all’insicurezza, alla precarietà, alla paura del futuro.Perseguono la velocità degli spostamenti ed ignorano quella pensiero, costruiscono treni ed auto sempre più veloci, senza accorgersi che se non ci si ferma un attimo a riflettere fra poco non ci sarà più nessun posto in cui valga la pena di andare.
Guardano al mondo come ad una materia prima ed osteggiano coloro che riescono a vederlo come un organismo vivente, guardano alle persone come a delle risorse e le manganellano quando prendono coscienza di sé e chiedono di poter decidere del proprio futuro.Inseguono un modello di sviluppo che in realtà non riesce più a progredire ma sta sortendo il solo effetto di riportare indietro la qualità della vita di tutti.
Mercedes Bresso, Chiamparino e tutti coloro che ne condividono il pensiero, temono i NO TAV valsusini molto più di quanto essi stessi non vogliano ammettere. Li temono perché sono consapevoli del fatto che non esiste nulla di Nimby nel loro pensiero e lo spirito critico accumulato attraverso la conoscenza li porterà inevitabilmente molto più lontano di quanto i primi oppositori del treno veloce potessero supporre, talmente lontano da lasciarsi alle spalle quel “NO” nel quale li si vorrebbe rinchiusi come dentro a un bozzolo.

Il macellaio, l’operaio metalmeccanico, l’impiegato comunale, l’insegnante di scuola materna, il pensionato, lottando contro il TAV hanno accumulato conoscenza, condividendola con i loro vicini di casa ed i loro amici che a loro volta hanno fatto altrettanto, rafforzando quella rete di rapporti conviviali e quel piacere dello “stare insieme” che costituiscono il filo conduttore di questi 15 anni di lotta, e si sono rivelati fondamentali nel superamento del difficile inverno 2005. La conoscenza ha indotto quella consapevolezza e quello spirito critico che li hanno portati a contestare oltre al TAV la velenosa presenza dell’acciaieria Beltrame e l’insensato progetto della seconda canna del Frejus che si manifesta foriero di futuri incrementi del traffico di mezzi pesanti all’interno della Valle di Susa, ma anche ad emanciparsi dal ruolo di cittadini silenti che subiscono passivamente qualunque trama si ordisca sopra la loro testa. L’emancipazione ha prodotto nuovi “perché” e la ricerca di nuova conoscenza, vissuta attraverso la condivisione delle motivazioni per cui molte altre realtà in Italia lottano contro le grandi opere e le nocività. Il Patto di Mutuo Soccorso creato nel 2006 ed oggi ancora in fase embrionale ha già messo in relazione fra loro oltre 300 realtà di lotta che condividono reciprocamente il proprio sapere e le proprie esperienze, all’interno di una rete comune mirata a creare solidarietà ed interscambio fra tutti i soggetti che la compongono, ed i NO TAV valsusini rappresentano senza dubbio il fulcro intorno al quale si è ingenerato questo processo che tanto sta spaventando la consorteria del cemento e del tondino ed i partiti politici che la sostengono.

La Valle di Susa dopo gli accadimenti dell’inverno 2005, quando la politica tentò d’imporre il TAV attraverso la militarizzazione del territorio e l’uso indiscriminato del manganello, con il solo risultato di provocare una vera e propria rivolta popolare che la condusse ad una sconfitta cocente, è diventata un vero e proprio crocevia del sapere. Laddove i grandi poteri avrebbero voluto costruire un mortifero corridoio di transito per merci di fantasia e persone senza volto è nato invece un grande corridoio di pensiero vivo e vitale, dove le persone comunicano guardandosi negli occhi e le idee prendono forma in libertà. Le serate informative, le assemblee, le iniziative culturali sono tantissime e sempre più partecipate e contribuiscono a costruire un terreno fertile per l’acquisizione di nuove conoscenze , non solo di carattere tecnico/scientifico, ma anche umano e sociale. Questo nuovo arricchimento di conoscenza ha condotto i NO TAV valsusini a maturare la consapevolezza di come il vero nemico da combattere non sia costituito dal TAV, dall’acciaieria, dall’inceneritore, dalla base militare, dal Mose, dal rigassificatore, dalla centrale a carbone o da quella turbogas, bensì dal perverso sistema sviluppista che può sopravvivere solo attraverso la continua crescita dei consumi e del Pil, determinando la costruzione d’infrastrutture ed opere sempre più grandi ed impattanti che fagociteranno porzioni sempre maggiori di territorio, ammalorando progressivamente lo stato dell’ambiente e riducendo la qualità della vita di tutti noi. In virtù di questa consapevolezza risulta evidente come le lotte portate avanti contro le singole opere e nocività, anche qualora l’esito delle stesse sia premiante, non si riveleranno mai risolutive del problema che alligna a monte, nel sistema della crescita infinita, che continuerà a dispensare opere e nocività con sempre maggiore frequenza, dal momento che il suo unico scopo è quello di crescere e poi crescere ancora. Alla luce di questa evidenza anche portare avanti le azioni di contrasto senza mettere in discussione l’intero paradigma della crescita e dello sviluppo, rischia di rivelarsi una pratica sterile che nel migliore dei casi può proporsi come obiettivo un rallentamento temporaneo del ritmo con cui le singole opere vengono portate a compimento, al quale il sistema risponderà proponendo un numero sempre crescente di nuovi progetti. Opporsi al TAV affermando che l’incremento di traffico futuro sarà molto inferiore a quello ventilato e comunque tale incremento potrà essere gestito attraverso un potenziamento della linea ferroviaria attualmente esistente è un atteggiamento tanto giusto dal punto di vista razionale, quanto sbagliato in prospettiva perché giustifica intrinsecamente l’assurto in virtù del quale in Valle di Susa dovranno necessariamente transitare più merci e più persone. Alla stessa stregua opporsi agli inceneritori e alle discariche semplicemente argomentando che un’efficiente raccolta differenziata e la scelta di metodi di smaltimento meno impattanti come il Trattamento Meccanico Biologico (TMB) sarebbero in grado di evitare il ricorso all’incenerimento e al conferimento in discarica del pattume, rappresenta un atteggiamento virtuoso che però accredita come “sostenibile” il continuo incremento della massa dei rifiuti legato alla crescita esponenziale dei consumi. Parimenti lottare contro la costruzione delle centrali a carbone o turbogas e dei rigassificatori, sostenendo che esistono sistemi migliori e meno inquinanti per fare fronte all’aumento del fabbisogno energetico significa accettare a priori la prospettiva di un futuro nel quale il consumo di energia dovrà per forza aumentare in maniera esponenziale.

Il vero salto di qualità di cui stanno iniziando a farsi interpreti i NO TAV valsusini consiste proprio nello spostamento del problema dalle opere e dalle nocività al sistema sviluppista che oggi crea quelle opere e quelle nocività e domani dovrà necessariamente crearne di sempre più grandi è sempre più nocive, poiché la grandezza dimensionale e quantitativa è il termine primario nella scala valoriale della crescita che si ciba d’incremento della produzione, incremento dei consumi, incremento delle infrastrutture che servono a veicolare più velocemente i prodotti, incremento degli impianti destinati a smaltire i rifiuti del consumo, incremento del pil che consentirà ancora più produzione, più consumi, più traffico dei mezzi di trasporto delle merci, più infrastrutture necessarie per contenerli tutti, più capacità di smaltire nuovi rifiuti e così via in un circolo vizioso il cui unico terminale sarà per forza di cose l’annientamento della biosfera e di tutti gli esseri viventi che ne fanno parte.
Il grado di sensibilità raggiunto attraverso l’acquisizione di conoscenze e saperi sempre maggiori dai valsusini che lottano contro il TAV, li sta portando ad uscire da quel bozzolo del “NO” ormai troppo piccolo per contenere il loro pensiero. In Val di Susa sta nascendo la consapevolezza di come non sia sufficiente combattere qualcosa se contemporaneamente non ci si prodiga nel tentativo di costruire un’alternativa che non si limiti a tentare di preservare l’esiguo grado di benessere e qualità della vita ancora presenti, ma si proponga di creare un sistema completamente differente, partendo da una prospettiva in cui il benessere e la qualità della vita della persona siano centrali rispetto alle esigenze dell’economicismo.
Affiancare al rifiuto un atteggiamento che sia anche propositivo non significa trovare delle alternative percorribili per riuscire a far passare 40 milioni di tonnellate/anno di merci con il minore impatto socio/ambientale possibile, ma ribadire come quei 40 milioni di tonnellate/anno in Valle di Susa non ci dovranno passare mai, in quanto il volume di traffico merci che transita lungo la Valle è già oggi eccessivo e si deve mirare a ridurlo drasticamente.
Proporre un sistema alternativo a quello della crescita significa eliminare il ricorso agli inceneritori e alle discariche non solamente attraverso la raccolta differenziata e il TMB ma anche e soprattutto operando una riduzione dei consumi superflui, degli imballaggi, delle confezioni, diminuendo drasticamente il volume dei rifiuti e rendendo la natura dei prodotti il più possibile compatibile con le pratiche di riuso, recupero, riutilizzo e riciclaggio. Significa opporsi alle centrali a carbone, a quelle turbogas, ed ai rigassificatori, non limitandosi a sostenere la necessità d’incrementare il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili ma anche e soprattutto ponendosi l’obiettivo primario di ridurre nettamente i consumi di energia. E sarà possibile ottenere questo scopo aumentando l’efficienza energetica degli edifici, incentivando la pratica della cogenerazione, riducendo l’impatto della macroeconomia globalizzata che comporta spostamenti schizofrenici delle merci attraverso tragitti sempre più lunghi a favore di una microeconomia autocentrata fondata sulle filiere corte, nonché diminuendo i consumi superflui nell’ottica di una ritrovata sobrietà.
Proporre un sistema alternativo a quello sviluppista significa per i NO TAV valsusini affrancarsi dal dogma del progresso ed accostarsi al pensiero della decrescita, con la consapevolezza che non si sta tornando indietro ma semplicemente andando avanti attraverso una strada nuova che intende porre la scienza e la tecnologia al servizio dell’uomo e non la persona ed il proprio habitat al servizio della crescita e dello sviluppo. Una strada lungo la quale la cooperazione prevalga sulla competizione sfrenata, l’altruismo sull’egoismo, il piacere dello svago e dell’accrescimento culturale sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto per la qualità del nostro operato sull’efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, il piccolo sul grande, la qualità sulla quantità. Una strada che ci porti a riscoprire come il benessere e la felicità si possano realizzare attraverso la soddisfazione di una quantità limitata di bisogni reali, anziché attraverso il soddisfacimento illusorio di un’infinita miriade di bisogni effimeri indotti dalla macchina pubblicitaria e dai condizionamenti sociali. Come la vera ricchezza e la vera gioia allignino nella costruzione di relazioni sociali conviviali, nel godimento del tempo liberato, nella riscoperta della nostra natura umana, piuttosto che non nella nevrotica bulimia che ci porta a fagocitare senza sosta quantità sempre maggiori di beni materiali, nel vano tentativo di riempire quei vuoti esistenziali che devastano la nostra interiorità. Il pensiero della decrescita non va inteso come foriero di recessione o impoverimento, bensì come un’occasione per tutti che sia funzionale ad un nuovo tipo di società, nella quale la qualità della vita e l’interazione con l’ambiente al quale apparteniamo (e che non ci appartiene) siano valorizzati e prevalgano sulla produzione e sul consumo di prodotti inutili e nocivi.

Quello che, al fine di farne meglio comprendere le dinamiche, ho descritto fin qui come un processo di evoluzione lineare del pensiero, indotto dall’acquisizione di conoscenze e saperi che generalmente non fanno parte del bagaglio della persona comune, è in realtà un fenomeno molto complesso, ricco di sfaccettature e di variabili ed estremamente variegato nei tempi e nei modi della sua progressione. Sarebbe esercizio d’ingenuità molto lontano dalla verità oggettiva, affermare che oggi tutti i NO TAV valsusini abbiano maturato un grado di consapevolezza tale da essersi emancipati dal modello della crescita e dello sviluppo e condividere con convinzione i proponimenti che Maurizio Pallante enuncia nel Programma politico per la decrescita.
Le decine di migliaia di persone che in Valle di Susa si battono contro il TAV costituiscono un insieme estremamente composito, per estrazione sociale, culturale, sensibilità politica, età, possibilità materiale di partecipare alla lotta, capacità e volontà di acquisire la conoscenza. Altrettanto composito risulta essere per forza di cose anche il grado di consapevolezza maturato da ciascuno di loro e di conseguenza il suo spirito critico nei confronti del sistema sviluppista. Alcune persone hanno già fatto propri molti dei valori della decrescita, scoprendo l’importanza dell’autoproduzione e degli scambi non mercantili, anteponendo quando possibile la produzione dei beni all’acquisto delle merci, uscendo dalla logica consumista, praticando uno stile di vita maggiormente sobrio. Molte altre stanno iniziando ora a confrontarsi con il pensiero della decrescita, essendo arrivate, attraverso il percorso della lotta contro il treno veloce, a tratteggiare quelle stesse conclusioni che Pallante esprime in maniera organica nei suoi scritti, ma non hanno ancora avuto il modo ed il tempo per tradurre in pratica i loro convincimenti. Altre ancora stanno decolonizzando il proprio immaginario dai dogmi della crescita e dello sviluppo e riflettendo sulla valenza della parola progresso ma non si sono fino ad oggi avvicinate alla decrescita ritenendola una teoria (e non una pratica) difficilmente percorribile nell’immediato. Tante altre si trovano ancora all’inizio del proprio percorso ed incominciano solo oggi ad intuire le contraddizioni di cui è infarcito il pensiero dominante che da un lato li “terrorizza” vaticinando cambiamenti climatici e catastrofi ambientali, dall’altro li rassicura diffondendo il messaggio che grazie alla crescita e allo sviluppo tutto andrà per il meglio. Da un lato presenta le impietose immagini dei grandi fiumi ridotti ad acquitrini e profetizza il prossimo esaurimento delle risorse idriche, dall’altro propone come indispensabile la costruzione di sempre nuove gallerie che rimarranno indispensabili e imprescindibili anche quando la loro costruzione dissiperà miliardi di metri cubi di quell’acqua di cui si lamenta la penuria.

Si può comunque affermare senza tema di smentita come esistano molte e profonde consonanze fra la lotta contro il TAV portata avanti da noi valsusini ed il pensiero della decrescita, poiché proprio il concepimento di una società fondata sulla decrescita si manifesta come il terminale naturale del processo di maturazione fin qui descritto, che sia pur con tempi diversi sta portando tutti noi a percorrere la stessa strada, la quale comporterà per forza di cose il rifiuto del sistema sviluppista della cui progenie il TAV è figlio prediletto. Lottare contro il TAV e lottare per costruire una società della decrescita rappresentano due atteggiamenti complementari che permetteranno ad ogni valsusino di trasformare quello che inizialmente era solo un “NO” ad un’infrastruttura costosa, inutile e devastante, nella concreta costruzione di una prospettiva di futuro migliore (o semplicemente di futuro), per se stesso e per le generazioni a venire.

sabato 15 marzo 2008

L'AMBIENTALISMO DEL FARE

Marco Cedolin

Tratto dal libro "Proposta di un programma politico per la decrescita" Autori Vari - Editori Riuniti - Roma 2008 a breve in libreria.

La necessità di salvaguardare l’ambiente si sta facendo sempre più pressante, dopo che i risultati emersi dall’ultimo rapporto IPCC hanno messo in luce il preoccupante stato in cui versa l’ecosistema terra e le drammatiche prospettive derivanti dai cambiamenti climatici innescati dal riscaldamento del pianeta.. La quasi totalità del mondo scientifico è ormai concorde nel definire molto grave la situazione, identificando nell’inquinamento ingenerato dall’attività umana la causa principale del problema. Nel corso della recente Conferenza Nazionale sui cambiamenti climatici tenutasi a Roma lo scorso 12 settembre, il Ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio ha evidenziato come la situazione del nostro paese si manifesti ancora più allarmante, in quanto l’aumento di temperatura in Italia è stato di 4 volte superiore alla media mondiale.
Posti di fronte all’estrema serietà delle argomentazioni, fino ad oggi liquidate come fantasie degli ecologisti, i poteri politici, economici ed industriali si sono affrettati a colorare di “verde” il proprio pensiero, continuando ad affermare che occorre creare più crescita e sviluppo, ma aggiungendo che anche l’ambiente e l’ecologia devono crescere e svilupparsi di pari passo con l’economia. Dinanzi ad un cortocircuito logico di questa portata, chiaramente indicativo dell’assoluta mancanza di sensibilità ambientale da parte della classe dirigente del paese che si rivela totalmente incapace di comprendere la realtà, non resta che volgere lo sguardo in direzione delle associazioni ambientaliste che in un momento di emergenza come questo dovrebbero farsi carico di sensibilizzare l’opinione pubblica, proponendosi come elemento di rottura nei confronti di un modello di sviluppo che sembra avere imboccato drammaticamente una via senza uscita.

Legambiente è la più grande associazione ambientalista italiana, essendo diventata in oltre 25 anni di vita un vero e proprio colosso, forte di 20 comitati regionali, 1000 circoli locali e oltre 115.000 fra soci e sostenitori. Nata sul finire degli anni 70 sotto la guida di Chicco Testa ed Ermete Realacci, Legambiente rappresenta nell’immaginario collettivo degli italiani un punto fermo nel mondo dell’ambientalismo, più di quanto non accada per le altre associazioni ecologiste che si presentano strutturalmente meno organizzate e non possono vantare una presenza altrettanto capillare sul territorio ed uguale gradimento da parte delle istituzioni politiche. Poco importa che Chicco Testa sia diventato in seguito Presidente dell’Enel, per poi approdare alla Carlyle Europa e si manifesti oggi convinto sostenitore dell’energia nucleare, tanto da affermare in un’intervista del 2005 resa a Sergio Rizzo del Corriere della Sera che “Oggi un mondo senza energia nucleare è impensabile”. Oppure accolga con favore le colture OGM dichiarando dalle colonne dello stesso Corriere della Sera “Basta pregiudizi, il progresso non è nemico. Penso ai prodotti vegetali che possono venire utilizzati per i biofuel, i carburanti puliti. Colture che con gli OGM potrebbero rendere di più, evitando che la domanda crescente si trasformi in un aumento del prezzo, ad esempio della pasta o del mais”. Così come poco importa che Ermete Realacci attualmente sieda in Parlamento fra le fila di un partito come la Margherita che si manifesta fra i più attivi nello sponsorizzare la cementificazione del nostro paese.

Legambiente fin dall’inizio della sua attività ha sempre avuto una connotazione politica ben definita, restando nell’alveo dei partiti di sinistra, dai quali era nata come costola dell’Arci, ed ha portato avanti il proprio lavoro rifuggendo da qualsiasi logica di ecologismo estremo per privilegiare un atteggiamento di mediazione e collaborazione fattiva con le istituzioni. Questa scelta al prezzo di una ridotta incisività delle azioni in ambito di salvaguardia dell’ambiente, ha permesso all’Associazione di svilupparsi in maniera armonica con le istituzioni, arrivando a guadagnarsi una posizione d’interlocutore principe in materia ambientale presso la classe politica. Tale posizione ha conferito a Legambiente una popolarità senza eguali, facendo si che ogni sua iniziativa potesse venire presentata con un certo risalto mediatico ed accreditata tanto dalla “buona stampa” quanto dalle istituzioni come potenzialmente positiva e supportata da competenze scientifiche di ottimo livello.
Larga parte dei vertici di Legambiente sono composti da persone con alle spalle una lunga carriera politica o politicamente impegnate in maniera attiva nella coalizione di centrosinistra attualmente al governo. Il Direttore Generale Francesco Ferrante è senatore della Margherita, così come parlamentare della stessa Margherita è il Presidente Onorario Ermete Realacci, il Presidente del comitato scientifico Massimo Scalia è stato parlamentare verde, il membro del comitato esecutivo Gianni Mattioli vanta un’esperienza più che decennale come parlamentare prima fra le fila dei Verdi e poi in quelle dell’Ulivo. Tutti costoro, insieme al Presidente di Legambiente Roberto Della Seta, hanno partecipato lo scorso settembre a Roma alla prima uscita ufficiale della lista “Con Veltroni Ambiente, Innovazione, Lavoro” deputata a sostenere la candidatura del sindaco di Roma alle primarie del futuro Partito Democratico, nelle cui fila evidentemente i vertici di Legambiente aspiravano a trovare una qualche collocazione. Veltroni non ha ovviamente tardato a ricambiare il favore e non appena eletto alla presidenza del PD ha pensato bene di promuovere Roberto Della Seta ed Ermete Realacci quali membri dell’esecutivo del nuovo partito, sancendo di fatto uno stretto sodalizio fra il maggiore partito della coalizione di governo e la più grande Associazione ambientalista italiana che da oggi sarà chiamata a rispondere prima di tutti a lui.

Questa contiguità fra i vertici di Legambiente ed i partiti politici crea per forza di cose un’ambiguità di fondo che si concreta nell’evidente incapacità dell’Associazione di portare avanti una politica di difesa dell’ambiente realmente libera ed indipendente, risultando condizionata tanto dalle appartenenze politiche quanto dagli intrecci con amministrazioni, municipalizzate, e multiutilities che gestiscono i sevizi sul territorio. Legambiente ha così scelto come propria bandiera gli ossimori dello sviluppo sostenibile e della crescita verde, tanto cari ai partiti politici di entrambe le coalizioni, senza mettere in dubbio i fondamenti del modello sviluppista, limitandosi a proporre una mediazione fra economia ed ambiente che non sarà assolutamente in grado di manifestarsi come una risposta concreta ai problemi ambientali presenti e futuri.
Per rendersi conto del grado di sensibilità ecologica espresso dai vertici di Legambiente è sufficiente una lettura del quotidiano La Repubblica di sabato 20 ottobre 2007, dove accanto a un articolo di Enrico Franceschini sul villaggio inglese di Modbury, che si è fatto un nome con la scelta di bandire tutti i sacchetti di plastica sul suo territorio, sostituendoli con sportine di carta e cotone riutilizzabili, ne appariva un altro all’interno del quale Ermete Realacci illustrava l’approccio “italiano” allo stesso tipo di problema. Il Presidente onorario di Legambiente annunciava la prossima sostituzione dei sacchetti di plastica usa e getta con sacchetti di biopolimeri usa e getta, secondo il brevetto Novamont che con mezzo chilo di mais ed un chilo di olio di girasole produce 100 sacchetti biodegradabili. Una scelta di questo genere, nello spirito dell’articolo, dovrebbe coniugare ambiente ed economia, facendo felici anche gli agricoltori passati dal coltivare grano a coltivare “plastica”. Si stima infatti che per produrre le 300.000 tonnellate di bioplastiche che dovranno sostituire le equivalenti tonnellate di polietilene oggi usate per costruire 15 miliardi di sacchetti sarà sufficiente coltivare a mais e girasole 200.000 ettari di terreno.
Mentre la scelta operata dal villaggio inglese ha una valenza ecologica, sostituendo la plastica usa e getta con fibre naturali riutilizzabili, quella sponsorizzata da Realacci ne è assolutamente priva, insistendo nel proporre buste di plastica usa e getta, con la sola differenza di utilizzare la bioplastica in sostituzione di quella attualmente in uso. L’Onorevole Realacci evita inoltre accuratamente di rendere noto quanto combustibile fossile, quanta acqua, quanti fertilizzanti, quanti pesticidi sarebbero necessari per coltivare 200.000 ettari a mais e girasole, al fine di produrre 300.000 tonnellate di bio-plastiche usa e getta, così come evita di contabilizzare quanta anidride carbonica verrebbe rilasciata durante queste fasi di lavorazione e in quelle necessarie per passare dal mais al polimero finito. Benvenuti nel regno dell’ambientalismo del SI, vera bandiera del nuovo Partito Democratico, tanto vicino all’economia quanto distante da ogni pratica realmente ecologica.Le “campagne” portate avanti da Legambiente nel corso degli anni hanno contribuito a sensibilizzare un gran numero di cittadini nei confronti delle problematiche ambientali, facendo crescere sempre più il numero dei soci, dei sostenitori e di tutti coloro che finanziano l’Associazione o semplicemente si adoperano gratuitamente per sostenerne l’operato. Seppure in possesso di una valenza positiva le campagne di Legambiente presentano però anche delle componenti discutibili che hanno come conseguenza la collocazione dell’Associazione in una posizione di privilegio dall’alto della quale dispensare bollini di merito o demerito ed il coinvolgimento di un enorme numero di cittadini, disposti a spendersi per la tutela dell’ambiente, in battaglie di retroguardia, mediaticamente premianti ma prive d’incisività, a tutto detrimento della possibilità che costoro possano intraprendere iniziative e lotte realmente incisive che risulterebbero oltremodo scomode, intralciando le politiche di crescita e sviluppo tanto care ai grandi poteri. Non a caso le campagne di Legambiente vengono spesso portate avanti in collaborazione con regioni, province, comuni ed enti pubblici e privati, la maggior parte dei quali risultano fra i principali attori della sistematica opera di distruzione, avvelenamento e cementificazione dei territori e dell’ambiente.

La campagna “Goletta Verde”, realizzata da Legambiente compiendo il periplo della penisola italiana e analizzando circa 500 campioni di acqua marina al fine di stabilire lo stato di salute del nostro mare, somiglia sempre di più ad una trasposizione in chiave balneare della guida enogastronomica del “Gambero Rosso” con cui premiare o castigare le località balneari in funzione dei dati riscontrati attraverso l’analisi delle loro acque. I risultati della campagna vengono ogni anno diffusi da giornali e TV con tale risalto da far si che una “vela” in più o in meno sul catalogo possano costituire motivo d’incremento o perdita di fatturato per migliaia di attività turistiche che si trovano in questo modo a dipendere da Legambiente per quanto concerne i propri risultati economici. La campagna del 2007 è stata condotta per mezzo di 3 imbarcazioni che hanno fatto tappa in oltre 60 porti ed è stata realizzata con il contributo di Vodafone Italia e Italgest Mare e con la collaborazione del Ministero dell’Ambiente, campionando 443 punti, l’87,6% dei quali, contro l’87,3% dell’anno passato, sono risultati perfettamente puliti. Le conclusioni delle analisi di Legambiente indurrebbero perciò il cittadino a ritenere il mare italiano idoneo alla balneazione, pur con l’eccezione di alcune situazioni specifiche, indotte (come documentato nell’analisi) dalla cattiva gestione dei sistemi di depurazione da parte di alcune amministrazioni comunali inadempienti. L’analisi constata sostanzialmente un costante anche se lento miglioramento delle acque di balneazione, frutto di una maggiore attenzione da parte delle amministrazioni nei confronti della qualità del mare, attenzione che ovviamente proprio campagne come Goletta verde avrebbero contribuito nel tempo ad incrementare. Il cittadino impegnato a nuotare allegramente in quelle acque definite “perfettamente pulite” da Legambiente che ha rigorosamente eseguito su di esse le analisi previste dalla legge, dovrebbe essere però informato del fatto che i controlli in oggetto sono esclusivamente di tipo microbiologico e non prendono in considerazione l’inquinamento di tipo chimico. Quelle stesse acque definite “perfettamente pulite”, in quanto prive di agenti patogeni nel momento dell’analisi, potrebbero pertanto rivelarsi inquinate anche pesantemente da sostante chimiche e metalli pesanti, che pur non creando alcun problema di salute immediato all’allegro nuotatore, entreranno nella catena alimentare attraverso il pescato, con il rischio di determinare patologie ben più gravi di quelle indotte dall’inquinamento batterico. Solamente un serio piano di monitoraggi scientifici sistematici e non sporadici, che prendano in considerazione tanto l’inquinamento microbiologico quanto quello chimico, sarebbe in grado di definire la reale situazione di salute del nostro mare che con tutta probabilità si rivelerebbe ben peggiore di quella tratteggiata dalla Goletta Verde. Questo compito naturalmente spetta al Ministero dell’Ambiente e non alle associazioni ambientaliste che però fra una bandierina e l’altra dovrebbero sentirsi in dovere di sollecitarne l’attuazione, anziché limitarsi a premiare annualmente i comuni più virtuosi, raccogliendo montagne di visibilità in TV e sui giornali.

La campagna “Treno Verde” condotta dal 1988 da Legambiente insieme alle Ferrovie dello Stato viene realizzata per mezzo di un convoglio ferroviario che sosta in alcune città italiane, raccogliendo a bordo visitatori e scolaresche e monitorando l’inquinamento dell’aria e quello acustico, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi della qualità urbana e dello sviluppo sostenibile. Le misurazioni analizzano inquinanti di varia natura ma si limitano a monitorare la presenza delle polveri sottili PM 10 (come prescritto dalla legge) senza prendere in considerazione le nanopolveri, PM 2,5 e PM 0,1 che le più recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato essere gli agenti a più alta patogenicità.
L’informazione diffusa attraverso l’iniziativa non sempre è corretta e in alcuni casi si mostra superficiale e fuorviante. Nell’opuscolo dedicato alla campagna del 2007 sotto la voce “Il gruppo FS per l’ambiente” è scritto testualmente che “La ferrovia, rispetto alla strada, consente di risparmiare energia, ha un minore impatto ambientale e consuma meno territorio, un quinto rispetto alle autostrade a parità di capacità di trasporto. Le emissioni di anidride carbonica che soffocano le città e contaminano le valli, sono inferiori a quelle dell’aereo e dell’auto, rispettivamente di 7,5 e 4,5 volte. Il trasporto combinato (treno + auto) delle merci comporta emissioni e consumi 4 volte minori rispetto a quello su gomma”. Questi dati verranno ovviamente assimilati come attendibili dal cittadino, in quanto garantiti dalla maggiore Associazione ambientalista italiana, ma si manifestano assolutamente privi di significato, poiché operano dei confronti senza specificare quali siano i termini degli stessi. Quali ferrovie e quali strade si prendono in considerazione quando si afferma che “la ferrovia, rispetto alla strada, consente di risparmiare energia, ha un minore impatto ambientale e consuma meno territorio”? Un treno normale consuma sicuramente meno energia di un TIR, così come una normale linea ferroviaria ha minori impatti ambientali rispetto ad un’autostrada. Un treno ad alta velocità/capacità, al contrario consuma ed inquina maggiormente se confrontato con un TIR euro5 e perfino con l’automobile, ed una linea ferroviaria per l’alta velocità/capacità ha impatti ambientali superiori a quelli di un’autostrada. Ne consegue che il trasporto di merci e persone tramite ferrovia si manifesta vantaggioso dal punto di vista energetico ed ambientale, rispetto a quello su gomma, solo sulle linee ferroviarie tradizionali, mentre la situazione si ribalta quando si fa riferimento alle nuove tratte TAV, nella costruzione delle quali le Ferrovie di Stato stanno operando investimenti faraonici senza nessuna prospettiva di miglioramento ambientale. Il cittadino che legge l’opuscolo della campagna Treno Verde 2007 sarà invece indotto in maniera fraudolenta a credere che il trasporto di merci e persone tramite ferrovia sia sempre ecologicamente vantaggioso rispetto a quello su gomma, mentre non è così.
Sempre nell’opuscolo si può leggere che “Anche nelle grandi opere realizzate dalle FS, l’attenzione ai fattori ambientali è diventata ormai una costante. Basti pensare che per quanto riguarda l’inserimento sul territorio delle infrastrutture per l’alta velocità/capacità l’impegno di spesa del gruppo per salvaguardare l’ambiente è tra il 15 ed il 20% dell’investimento totale”. In questo caso si tratta di un’informazione assolutamente falsa, in quanto a prescindere da quale sia l’entità della spesa di FS per tentare di salvaguardare l’ambiente nell’ambito del progetto TAV/TAC, quello stesso ambiente non è stato per nulla salvaguardato. Al contrario le infrastrutture per l’alta velocità/capacità hanno deturpato in profondità l’ambiente, creando una sorta di “muraglia cinese” di calcestruzzo che taglia in due la pianura padana fra Torino e Milano e poi ancora giù fino a Bologna. Così come la costruzione di quelle stesse infrastrutture ferroviarie ha pesantemente devastato il territorio del Mugello, creando tutta una serie di danni irreversibili riguardo ai quali è tuttora in corso un processo presso il Tribunale di Firenze, che vede imputato il consorzio Cavet che ha realizzato l’opera.
Lo stretto rapporto di collaborazione di Legambiente con le Ferrovie di Stato, che stanno portando avanti una grande opera dagli impatti ambientali devastanti, come il progetto alta velocità/capacità italiano, può essere comprensibile se visto nell’ottica delle campagne per la mobilità sostenibile tanto care alla onlus del cigno. E’ al contrario assolutamente incomprensibile che un’associazione ambientalista diffonda nell’ambito di una propria iniziativa, informazioni imprecise e fuorvianti, aventi in parte per oggetto una grande infrastruttura, al solo scopo di compiacere il proprio partner commerciale che sta costruendo quella infrastruttura in totale spregio dell’ambiente.

La campagna “Mal’Aria” organizzata ogni anno da Legambiente nel periodo compreso fra metà novembre e la fine di gennaio, si propone di sensibilizzare i cittadini riguardo alle proposte politiche per una mobilità sostenibile, oltre a monitorare il livello d’inquinamento delle città. Nell’ambito dell’iniziativa i cittadini vengono invitati ad esporre delle lenzuola bianche acchiappasmog (recanti l’immancabile logo del cigno) al fine di constatarne il progressivo annerimento a testimonianza di quanto sia elevata la presenza di smog. L’iniziativa mette in evidenza il pessimo stato dell’aria delle nostre città, ma tende a focalizzare l’attenzione del cittadino quasi esclusivamente in direzione del traffico automobilistico privato e del riscaldamento delle abitazioni, senza dare risalto alle altre fonti d’inquinamento atmosferico quali fabbriche, inceneritori, centrali termoelettriche ecc. I rimedi proposti sono gli stessi che le amministrazioni delle grandi città stanno cercando di attuare da alcuni anni con scarsi risultati e gravano quasi esclusivamente sulle spalle dei cittadini. Si tratta dei dettami della mobilità sostenibile, consistenti nell’invito a privilegiare l’uso dei mezzi pubblici, di ricorrere al car sharing e al car pooling, di acquistare un’auto nuova euro 4 (per la felicità dei grandi costruttori automobilistici) e dell’auspicio che i comuni ricorrano a sistemi di tassazione degli automobilisti che intendono fare ingresso nelle città ed applichino sistemi di tariffazione maggiorata per il posteggio nelle zone centrali. Il possesso di un’auto con molti anni di vita, e pertanto giudicata maggiormente inquinante, viene stigmatizzato come una colpa grave, mentre ai nuovi filtri antiparticolato euro4 viene attribuita una valenza taumaturgica che in realtà è valida solamente dal punto di vista legislativo e non certo da quello sanitario. Non una sola parola viene spesa per ventilare la necessità di una riorganizzazione del mondo del lavoro che riesca ad invertire il continuo aumento delle distanze che i cittadini devono coprire per recarsi a lavorare, nessun accenno all’opportunità di decentrare il posizionamento degli uffici, nessun riferimento alla necessità di ricorrere in maniera seria e sistematica al telelavoro, nessun progetto volto a ridurre “l’obbligo” cui sono soggetti molti cittadini di recarsi quotidianamente nella parte più inquinata delle città. In piena sintonia con lo spirito dell’iniziativa, la campagna Mal’Aria 2007 di Legambiente è stata sostenuta dall’Associazione AIFP (Associazione Italiana Filtri Particolato) i cui aderenti sono Pirelli Ambiente Eco Technology, Dinex Italia e Ofira Italiana, grandi industrie private che costruiscono il proprio profitto producendo quei filtri antiparticolato per automezzi accreditati nella campagna come miracolosi, nonostante si limitino a trasformare le polveri sottili PM10 (le uniche prese in considerazione dalla legge) in nanopolveri di minore dimensione, molto più pericolose per la salute umana ma totalmente ignorate dalla legislazione ed evidentemente anche dai rilevamenti di Legambiente.

Se le campagne portate avanti da Legambiente lasciano spazio a molte perplessità, legate alla reale volontà d’incidere nei problemi ed alla natura spesso ambigua dei partner scelti per sostenerle è però affrontando il tema dell’energia e delle grandi opere che l’Associazione mostra i suoi veri limiti, dimostrandosi incapace di operare una scelta netta fra gli interessi dell’ambiente e quelli dei partiti politici e dell’imprenditoria privata a fianco dei quali opera con estrema contiguità.
In ambito energetico le posizioni di Legambiente si accompagnano troppo spesso a collaborazioni disinvolte con aziende private che operano nel settore. Il caso forse più eclatante è rappresentato dalla partecipazione dell’Associazione come socio con il 10% in una società del gruppo Sorgenia, la Eligent, dedicata allo sviluppo di soluzioni per l’efficienza energetica. Il pacchetto di maggioranza del gruppo Sorgenia, appartiene al gruppo CIR di De Benedetti, che possiede anche la maggioranza del gruppo L’Espresso (Repubblica) di Sogefi s.p.a. impegnata nella produzione di componenti per autoveicoli e di Tirreno Power, società proprietaria della centrale a carbone di Vado Ligure e della centrale turbogas di Civitavecchia. Il gruppo Sorgenia è uno dei primi 5 operatori nazionali in campo energetico, ha costruito e possiede la centrale turbogas di Termoli della potenza di 770 MW, è attualmente impegnato a Modugno, nei pressi di Bari, nella costruzione di una centrale turbogas da 720 MW ed ha già ottenuto le autorizzazioni per la costruzione di 2 nuove centrali turbogas ad Aprilia e Turano-Bertonico nei pressi di Lodi. In ognuno di questi luoghi sono nati comitati spontanei di cittadini che si battono contro la realizzazione di opere di questo genere, devastanti tanto per l’ambiente quanto per la salute degli abitanti. A Modugno il Comitato Cittadino Pro Ambiente ha già raccolto oltre 15.000 firme e organizzato più di una manifestazione di protesta. La centrale di Modugno consumerà 1miliardo di metri cubi l’anno di metano ed emetterà nell’atmosfera attraverso due camini 3,9 milioni di metri cubi l’ora di gas da combustione alla temperatura minima di 85 gradi. Le ricadute inquinanti interesseranno un’area di 20 km di raggio e saranno composte da 1.500.000 tonnellate/anno di CO2, 1.500 tonnellate anno di ossido di azoto, 290 tonnellate/anno di polveri e nanopolveri, 200 tonnellate/anno di metano incombusto (gas serra 21 volte più potente della CO2) 90 tonnellate/anno di ammoniaca e 47 tonnellate/anno di idrocarburi estremamente cancerogeni.
Non si può evitare di restare basiti constatando che la maggiore Associazione ambientalista italiana partecipa in qualità di socio ad un’impresa impegnata nel costruire “mostri” di questo genere, assolutamente incompatibili con qualsiasi proposito di salvaguardia dell’ambiente e della salute.

Anche di fronte ad alcune grandi opere ambientalmente devastanti, la cui costruzione è avversata con fermezza da comitati di cittadini, esperti ed associazioni ambientaliste, i vertici di Legambiente hanno spesso assunto posizioni incompatibili con lo status di onlus ecologista che dovrebbe contraddistinguerli, manifestandosi il più delle volte in profonda distonia con il pensiero degli stessi circoli locali dell’Associazione.
Il progetto del TAV/TAC italiano si sta rivelando una delle più grandi truffe che siano mai state messe in atto in Italia, manifestandosi come una vera fucina di corruzione, infiltrazioni mafiose e cattiva gestione del denaro pubblico, come ampiamente documentato da ottime pubblicazioni editoriali, fra le quali spicca senza dubbio il libro “Corruzione ad alta velocità” di Ferdinando Imposimato. Le nuove linee per i treni ad alta velocità/capacità comportano costi economici ed ambientali enormi, superiori a quelli di qualunque altra infrastruttura trasportistica, senza essere in grado di rispondere a nessuna delle esigenze dei viaggiatori (la stragrande maggioranza dei quali pendolari) che utilizzano il servizio ferroviario e delle aziende che hanno interesse a movimentare le proprie merci tramite ferrovia. I nuovi treni ad alta velocità determineranno impatti ambientali e consumi energetici superiori a quelli del trasporto di merci e persone su gomma, come dimostrato dallo studio del Dottor Mirco Federici dell’Università di Siena, senza riuscire ad ottenere alcun risultato in termini di redistribuzione modale del traffico merci.
Il Presidente di Legambiente Roberto Della Seta il 16 novembre 2005 interveniva su un palco in Val di Susa davanti a decine di migliaia di persone, affermando la propria contrarietà al progetto TAV Torino – Lione, portato avanti con l’uso della forza dal Governo Berlusconi. Lo stesso Presidente di Legambiente Roberto Della Seta lo scorso 19 marzo 2007, a Bari per la presentazione della campagna “Treno Verde” annunciava in conferenza stampa la costituzione di un Comitato SI TAV per la tratta Napoli – Bari in collaborazione con Confindustria, le Ferrovie di Stato e la Regione Puglia. Scopo del comitato quello di sensibilizzare il Governo Prodi riguardo all’opportunità di costruire in tempi brevi l’infrastruttura per i treni ad alta velocità/capacità. Il Direttore Generale di Legambiente Francesco Ferrante si è espresso più volte in maniera favorevole rispetto al progetto TAV del Brennero, con relativo tunnel BBT, pur ostinandosi nel definirlo un “quadruplicamento”, motivando questa posizione con la necessità di un presunto riequilibrio modale, nonostante lo studio della società svizzera Progtrans, commissionato dalla BBT GEIGE abbia già dimostrato che il tunnel di base (del costo previsto di 5 miliardi di euro) ed i 180 km di linea TAV di accesso al BBT (del costo previsto di 20 miliardi di euro) sposterebbero su rotaia solamente 33 TIR/giorno su 6.516, cioè lo 0,5%. Ermete Realacci lo scorso giugno 2007, ospite di un convegno a Bolzano ha affermato “Inceneritore e tunnel del Brennero? Facciamoli, i problemi sono altri”.
I problemi di Ferrante e Realacci sono sicuramente altri, riconducibili alla buona riuscita del neonato Partito Democratico, con buona pace dei 115.000 soci e sostenitori di Legambiente che gratuitamente dedicano il loro tempo ed i loro sforzi all’associazione, nella speranza di contribuire a preservare lo stato di salute dell’ambiente e non certo quello del nuovo PD.
La maggiore Associazione ambientalista italiana posta di fronte ad una grande opera costosissima, energivora e devastante come il TAV/TAC, avversata da oltre un centinaio di Comitati spontanei di cittadini in tutta Italia, evita qualsiasi opposizione, probabilmente per compiacere un partner commerciale di tante sue campagne (dal Treno Verde al Turismo Sostenibile) quale le Ferrovie dello Stato. Al contrario afferma essere sua intenzione quella di valutare l’opportunità di ogni tratta, caso per caso senza alcuna pregiudiziale ideologica. E’ un po’ come se la maggiore associazione di protezione degli animali affermasse di non essere ideologicamente contraria all’uccisione dei camosci, riservandosi il diritto di decidere dove concordare con gli abbattimenti e dove invece eventualmente opporsi.

I nuovi megainceneritori, impropriamente definiti termovalorizzatori nel tentativo di attribuire loro una dimensione positiva che non posseggono, rappresentano in assoluto il peggiore metodo di smaltimento dei rifiuti, peggiorativo perfino rispetto al conferimento del pattume in discarica, come sottolineato anche nel rapporto dell’Associazione Medici per l’Ambiente Isde Italia. Questo poiché la combustione trasforma anche i rifiuti relativamente innocui quali imballaggi e scarti di cibo, in composti tossici e pericolosi sotto forma di emissioni gassose, nanopolveri, ceneri volatili e ceneri residue. Il Dott. Stefano Montanari, Direttore scientifico del laboratorio di nanodiagnostica di Modena, mette in evidenza come da una tonnellata di rifiuti bruciata si ricavi una tonnellata di fumi, da 280 a 300 kg di ceneri solide, che andranno stoccate all’interno di discariche per rifiuti speciali, 30 kg di ceneri volanti (la cui tossicità è enorme) 650 kg di acqua sporca da depurare e 25 kg di gesso inquinato utilizzato per l’abbattimento dei fumi. Il che significa il doppio di quanto si è inteso smaltire, con l’aggravante di avere trasformato il tutto in un prodotto altamente patogenico. Oltre a dimostrarsi una calamità dal punto di vista ambientale e sanitario, come tanti studi stanno a dimostrare, i megainceneritori si rivelano fallimentari anche sotto l’aspetto economico, al punto che se non usufruissero in maniera fraudolenta degli incentivi statali (sotto le mentite spoglie di fonti energetiche rinnovabili) la loro esistenza non avrebbe economicamente alcun senso. Essi inoltre necessitano di grandi quantità di rifiuti dall’alto potere calorifico, quali plastica, carta e cartone, necessari per mantenere l’elevata temperatura di esercizio, sottraendoli al riciclo e contribuendo a ridurre i volumi della raccolta differenziata.
I megainceneritori rappresentano dunque una vera calamità per l’ambiente, ma anche nei loro confronti la maggiore Associazione ambientalista italiana non è in grado di esprimere una posizione di contrasto. Il Presidente di Legambiente Roberto Della Seta afferma che “Rispetto alle forme illegali e criminali di smaltimento dei rifiuti, un inceneritore pubblico controllato rappresenta comunque un progresso”. Come se qualcuno cercasse di giustificare un pestaggio a sangue, affermando che è un male minore rispetto all’omicidio. Sempre Della Seta aggiunge “Noi rifiutiamo 1'incenerimento dei rifiuti tal quali e consideriamo accettabile la termovalorizzazione solo se a bruciare è una frazione marginale, residua, sécca e non pericolosa di rifiuti; ma ci pare un assioma indimostrato (e indimostrabile) quello per cui l'incenerimento sarebbe il fondamentale e principale ostacolo alla differenziazione e al riciclaggio”. A perfetta dimostrazione dell’assioma che secondo le parole di Della Seta risulterebbe indimostrabile occorre constatare come in tutte le città nelle quali sono stati costruiti impianti d’incenerimento dei rifiuti la percentuale di raccolta differenziata è estremamente bassa. A Brescia dove è da tempo attivo il megainceneritore della ASM, per citare un caso su tutti, la raccolta differenziata risulta ufficialmente ferma al 40% e si tratta di un dato gonfiato artificialmente assimilando in maniera impropria ai rifiuti urbani prodotti dalle famiglie anche quelli speciali provenienti dalle attività economiche, mentre l’entità reale della raccolta differenziata in città si rivela ancora più contenuta.
Davis Casetta del Direttivo di Legambiente Padova, in un articolo avente per oggetto il potenziamento dell’inceneritore cittadino afferma che “Alcuni inceneritori si possono fare, ma solo all’interno di una collocazione corretta nel ciclo integrato dei rifiuti. Inoltre gli impianti di termovalorizzazione devono ovviamente dare il massimo di garanzie per le popolazioni e devono sorgere nei siti idonei”. La Segreteria di Legambiente Parma in un documento nel quale chiarisce la propria posizione sulla questione rifiuti afferma che la costruzione del “Forno inceneritore potrà esse vista come ulteriore possibilità di corretta gestione del problema rifiuti solo in un contesto generale che preveda aspetti positivi quali la gestione integrata basata su criteri di innovazione del ciclo, raggiungimento di elevate performance ambientali, personalizzazione dei servizi ed altre azioni che vadano nella direzione di aumentare la raccolta differenziata e ridurre i rifiuti”. Lo scorso mese di ottobre nel comune emiliano di Colorno, in occasione della domenica ambientalista, Legambiente distribuiva opuscoli aventi per oggetto la gestione dei rifiuti recanti il logo di ENIA (multiutility che gestisce inceneritori e discariche) all’interno dei quali si vantavano i meriti del nuovo “termovalorizzatore”.
Legambiente si è sempre espressa positivamente riguardo al megainceneritore dell’ASM di Brescia, condividendo il progetto fin dal momento della sua creazione, arrivando perfino ad offrire in qualità di Presidente del Comitato tecnico – scientifico che ha elaborato il progetto, il proprio membro del Comitato Scientifico ing. Paolo Degli Espinosa.
A Terni dove sono già attivi 2 inceneritori, il consiglio Comunale ha approvato l’apertura di un terzo camino d’incenerimento, con il voto favorevole dei 2 consiglieri appartenenti a Legambiente, senza neanche avviare preventivamente un dibattito con la cittadinanza.
In provincia di Grosseto Legambiente è favorevole alla costruzione dell’impianto di CDR delle Strillaie (che copre una superficie di 55.000 metri quadrati, pari ad 8 campi da calcio, ed ha un’altezza di 13 metri, come un palazzo di 4 piani) nell’ambito del quale le comunità consorziate hanno sottoscritto un contratto capestro che le costringerà a conferire quantità sempre crescenti di rifiuti indifferenziati. Così come l’Associazione guarda con favore all’inceneritore di Scarlino che sarà destinato a bruciare il CDR prodotto nell’impianto delle Strillaie.
In altre realtà alcuni circoli locali di Legambiente sono invece attivamente impegnati contro l’incenerimento. Questa profonda ambiguità, indotta dalla volontà di coniugare ambiente e mercato, mantenendo gli stretti rapporti di “amicizia” e collaborazione che l’Associazione vanta con multiutility e municipalizzate in prima fila nella costruzione degli inceneritori, come Hera ed ASM, non fa sicuramente bene all’ambiente e contribuisce a confondere le idee dei cittadini che vengono esortati a difenderne l’integrità a corrente alternata, secondo un disegno dettato esclusivamente dalle opportunità politiche.

I rigassificatori sono degli impianti che consentono l’importazione di gas allo stato liquido, attraverso le navi gasiere, costituendo in questo modo un’alternativa al gas importato tramite i gasdotti. Si tratta di impianti che determinano un grande impatto ambientale e costituiscono un enorme potenziale di pericolo per le popolazioni in caso d’incidente. Le motivazioni della loro costruzione possono essere lette esclusivamente alla luce dell’ambizione da parte dei gestori di energia di trasformare il nostro paese in una sorta di hub energetico che consenta l’esportazione del gas verso il resto d’Europa, piuttosto che non nella velleità di fare fronte ad un continuo aumento dei consumi interni di energia nei prossimi anni. L’Italia ha infatti in previsione di realizzare 13 rigassificatori nei prossimi anni, i quali sarebbero in grado di assorbire oltre 100 miliardi di metri cubi di gas che unitamente a quello importato tramite i gasdotti costituirebbe una quantità di combustibile enormemente superiore ai bisogni del nostro paese anche alla luce delle stime più ottimistiche di crescita dei consumi energetici.
Avallare la costruzione dei rigassificatori, significa dunque avallare le speculazioni dei colossi dell’energia e condividere con loro l’intenzione di aumentare nel prossimo futuro lo sfruttamento di una fonte energetica fossile non rinnovabile quale è il gas naturale. Proprio per queste ragioni comitati spontanei di cittadini ed associazioni ambientaliste si stanno da tempo battendo con forza contro la costruzione degli impianti di rigassificazione.
Nella mozione approvata dal direttivo nazionale di Legambiente in data 11 giugno 2006 in tema di rigassificatori si può leggere che “Legambiente rifiuta radicalmente l’idea di un’opposizione generalizzata contro i rigassificatori: i nostri comitati regionali, i nostri circoli e gruppi locali non possono in alcun modo prestare il fianco a iniziative di questo tipo, dannose per l’immagine e gli obiettivi dell’associazione, né tanto meno assecondare forme pericolose di disinformazione che esagerando oltre ogni decenza i rischi potenziali dei nuovi impianti, alimentano allarmismi e catastrofismi del tutto impropri”. Qualunque lettore disincantato faticherebbe molto a comprendere a quali “Obiettivi dell’Associazione” che prescindano dalla salvaguardia dell’ambiente, il documento stia facendo riferimento ma raccoglierebbe comunque il chiaro invito agli aderenti dei circoli locali affinché, qualora stiano portando avanti battaglie contro i rigassificatori, desistano dal loro intento uniformandosi ai dettami dell’Associazione. E poi ancora “È altresì evidente che se si vuole aumentare il contributo di gas alla produzione termoelettrica, occorre rendere meno rigido l’approvvigionamento metanifero, oggi affidato quasi per intero ai gasdotti che arrivano dalla Russia e dall’Algeria e nelle mani di un unico monopolista (l’Eni) e in particolare bisogna procedere alla realizzazione di alcuni terminal di rigassificazione. Anche questa posizione non è nuova per Legambiente: più di dieci anni fa ci schierammo a favore della realizzazione di un rigassificatore a Monfalcone, ma un referendum popolare indetto dal Comune vide la prevalenza del NO all’impianto”. Una giustificazione nei confronti d’impianti ambientalmente impattanti e potenzialmente pericolosi, basata esclusivamente su ragioni di natura economica che sicuramente non dovrebbero costituire il tema pregnante di un’associazione ambientalista. Inoltre “Se è necessario che le comunità locali vengano pienamente coinvolte nella discussione e nella valutazione sui singoli progetti, è anche importante che la decisione sulla realizzazione e la localizzazione di rigassificatori non sia considerata materia di competenza esclusivamente locale; in quest’ottica, va respinta l’idea demagogica e falsamente democratica di affidare le scelte finali a consultazione referendarie locali”. La maggiore associazione ambientalista italiana che da sempre si fa vanto dei propri principi democratici, si dimostra dunque pesantemente contrariata dal fatto che le comunità locali possano impedire la costruzione di una grande opera attraverso l’istituto del referendum, come accaduto nel caso di Monfalcone. E nello stesso documento si conclude che “In generale, noi pensiamo che gli impianti di rigassificazione vadano localizzati preferibilmente in aree industriali, dove possono diventare l’occasione per attivare interventi di risanamento ambientale, e fuori da siti di grande pregio ambientale e rilievo architettonico e culturale”. Non si riesce a comprendere quali occasioni per interventi di risanamento ambientale possano derivare da un rigassificatore, ma si comprende al contrario molto bene il pieno appoggio offerto da Legambiente alla costruzione di nuovi rigassificatori, certo funzionale alla partecipazione dell’Associazione in società come Sorgenia che costruiscono centrali turbogas, e condizionato solo dal fatto che gli impianti non turbino i siti giudicati di grande pregio ambientale e rilievo architettonico e culturale. Basta che a nessuno venga in mente di costruire l’impianto in piazza del Campo a Siena e la rigassificazione potrà dunque essere giudicata una pratica ambientalmente virtuosa.

L’eolico, al pari del solare, rappresenta una delle fonti energetiche rinnovabili nelle quali è senza dubbio necessario investire per ridurre la dipendenza del nostro paese dalle risorse fossili. La creazione dei cosiddetti “parchi eolici” si manifesta però come una suggestione creata artificialmente mistificando la realtà. I tralicci dell’altezza di 120 metri (4 volte un palazzo di 9 piani) non sono alberi, così come gli elettrodotti, le cabine di trasformazione e le strade di accesso non sono prati inglesi. Le installazioni eoliche, consistenti in una lunga serie di torri con annesse strutture di trasmissione e trasformazione, non somigliano neppure lontanamente a dei parchi, ma costituiscono un insieme d’infrastrutture che determinano un consistente impatto ambientale.
Proprio per questa ragione è indispensabile che l’opportunità della costruzione di un impianto eolico venga ponderata attentamente, tenendo nella massima considerazione le caratteristiche specifiche dei territori e l’opinione delle popolazioni interessate dal progetto e valutando in maniera oggettiva le eventuali criticità. La creazione di un’installazione eolica deve inoltre inserirsi armonicamente all’interno dei piani energetici regionali ed essere supportata da studi concernenti il ritorno economico dell’opera, per evitare che, come spesso accade, l’azienda privata che gestisce l’impianto, ritenendo tale gestione antieconomica lo abbandoni a sé stesso una volta esauriti gli incentivi finanziari pubblici. Occorre inoltre evitare di dare spazio a quei gestori interessati ad investire nell’eolico solamente per ottenere in questo modo dei “certificati verdi” di energie rinnovabili che consentiranno loro maggiore operatività nel settore delle energie non rinnovabili, magari da spendere nell’ampliamento di un inceneritore o in un impianto termoelettrico.
Anche fatte queste premesse lo sfruttamento dell’energia eolica in Italia è tale da destare comunque più di una perplessità, poiché concentrato in istallazioni di grandi dimensioni che riescono a diventare economicamente vantaggiose solamente grazie al contributo del denaro pubblico. In Inghilterra al contrario si privilegiano i piccoli impianti da 1 KW per autoconsumo, la cui struttura dell’altezza di 2 metri non crea alcun impatto ambientale.
L’atteggiamento di Legambiente in materia d’impianti eolici appare per molti versi discutibile in quanto caratterizzato da un appoggio sistematico alle aziende private che intendono investire nell’eolico, a prescindere dalla bontà dei singoli progetti e dalla buona fede dei gestori. Tale linea di condotta dell’Associazione ha comportato in più di un’occasione conflitti anche aspri con alcuni circoli locali, come nel caso del Circolo di Legambiente Emilia Est a proposito dell’installazione eolica del Sillaro o di Legambiente Basso Molise per il progetto dell’impianto eolico off shore di Termoli. In taluni casi è emersa l’esistenza di veri e propri accordi economici aventi per oggetto emolumenti in denaro, fra Legambiente ed alcuni imprenditori impegnati nell’eolico, come documentato in un’inchiesta del Secolo XIX datata 25 agosto 2007.

Alla luce di tutte le considerazioni fatte finora, appare chiaro come la più grande Associazione ambientalista italiana non abbia alcuna intenzione di manifestare un qualche elemento di rottura rispetto al modello sviluppista che si propone di risolvere il problema dell’inquinamento ambientale e dei mutamenti climatici attraverso gli stessi strumenti (crescita e sviluppo) che hanno contribuito ad ingenerarlo. La posizione di condiscendenza nei confronti delle grandi opere ad alto impatto ambientale (che la politica ritiene fondamentali elementi di crescita e sviluppo, non solo economico ma anche dell’ambiente) credo non lasci spazio a dubbi sulla volontà di Legambiente di proporsi quale capofila di un ambientalismo utilitarista e “non belligerante” che mira a qualificarsi quale antagonista delle centinaia di realtà (comitati spontanei di cittadini, movimenti, associazioni di varia natura) che oggi in Italia stanno combattendo attivamente contro le grandi opere e le nocività.
Non a caso Walter Veltroni nel proprio discorso di candidatura alla guida del futuro Partito Democratico, tenutosi al Lingotto di Torino nello scorso mese di giugno ha affermato “Quello a cui pensiamo è l’ambientalismo dei SI”. Quale interprete, meglio di Legambiente, i cui vertici partecipano attivamente al partito di Veltroni, potrebbe riuscire a tradurre in pratica la nuova filosofia dell’ambientalismo economico? Veltroni ha bisogno dell’appoggio di un’associazione ambientalista che riesca a dare una patente ecologica alla sua politica di crescita e sviluppo, sdoganando come “sostenibili” grandi opere impattanti e dannose fortemente contrastate dalle comunità locali. Legambiente ha bisogno di un appoggio politico che le consenta di trasformare l’ambientalismo in un business economico sempre più redditizio. A questo punto il “matrimonio” sembra già cosa fatta, anche se alla cerimonia tutti si sono dimenticati d’invitare gli otre centomila soci e sostenitori dell’associazione che regolarmente puliscono le spiagge e contribuiscono a creare le iniziative perché innamorati dell’ambiente e non certo degli inceneritori, dei rigassificatori, dei treni ad alta velocità e delle centrali turbogas.