mercoledì 11 novembre 2009

ACQUA PRIVATA


Marco Cedolin
L’acqua, insieme all’aria che respiriamo e al cibo, rappresenta uno degli elementi indispensabili per la nostra sopravvivenza. La possibilità di accedere all’acqua potabile per bere e cucinare costituisce un bisogno primario il cui soddisfacimento dovrebbe essere garantito a qualsiasi essere umano, ma anche la disponibilità di risorse idriche da usare per l’igiene personale e l’agricoltura si rivela indispensabile per garantire una vita dignitosa e la sopravvivenza delle comunità.
Nonostante ciò la disponibilità di acqua a livello mondiale sta continuando a diminuire e proprio l'accesso all'acqua sembra destinato a diventare uno dei più potenti strumenti di speculazione per multinazionali senza scrupoli.

Le riserve mondiali di acqua per abitante nel corso di mezzo secolo, fra il 1950 e il 2000, si sono praticamente dimezzate (da 16.800 m³ a 7.300 m³) e sono ulteriormente scese di circa il 40% nei 5 anni successivi, fino ad attestarsi nel 2005 a 4.800 m³. Nel mondo un miliardo di persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi non dispongono di servizi sanitari.
L’innalzamento del livello d’inquinamento di fiumi, torrenti e falde acquifere, unitamente alle massicce campagne pubblicitarie in favore delle grandi compagnie di acque minerali, ha determinato negli ultimi 5 anni l’aumento del 57% del consumo di acqua in bottiglia.
Molto spesso, approfittando del problema rappresentato dal pessimo stato in cui versano le condutture a causa degli scarsi investimenti pubblici praticati nel tempo, le grandi multinazionali si stanno sostituendo alle amministrazioni locali nella gestione delle reti idriche, appropriandosi in questo modo di un bene della collettività che potranno poi distribuire ai cittadini sulla base di prezzi e tariffe gonfiati a dismisura con l’unico fine di ingrassare il proprio tornaconto.
La trasformazione del “bene” acqua nella “merce” acqua sta avvenendo con tale velocità da far si che la rivista americana Fortune abbia individuato proprio il “settore dell’acqua” come quello in assoluto potenzialmente più remunerativo e perciò consigliato per praticare investimenti.

In Italia la sempre più spinta privatizzazione dei servizi pubblici, fortemente voluta dalla politica in maniera totalmente bipartisan nel corso dell’ultimo decennio, parallelamente alla trasformazione delle vecchie “municipalizzate” in società per azioni a capitale misto pubblico/privato che vengono quotate in borsa e si pongono sul mercato costruendo profitto attraverso la gestione dei servizi primari destinati ai cittadini (smaltimento rifiuti, acqua, distribuzione del gas, trasporti, servizi funerari) sta iniziando a produrre risultati catastrofici in termine di qualità dei servizi ed incremento del costo delle tariffe, ormai sempre più slegate da qualsiasi logica volta a salvaguardare gli interessi della collettività.
Emblematico a questo riguardo è sicuramente quanto accaduto ad Aprilia nel 2005, dove la gestione della distribuzione dell’acqua da parte della società Acqualatina, partecipata al 46,5% dalla multinazionale francese Veolia, ha comportato incrementi delle bollette nell’ordine del 300%, determinando una vera e propria sollevazione popolare da parte di oltre 4000 famiglie che si rifiutano di sostenere in silenzio un salasso di questo genere.

Forti preoccupazioni concernenti la “svendita” ai privati di una risorsa vitale come l’acqua, che dovrebbe continuare a rimanere patrimonio di tutti, sono state recentemente ingenerate da tutta una serie di novità in tema di liberalizzazioni dei servizi pubblici introdotte dal decreto Tremonti, che mira a liberalizzare la gestione dei servizi pubblici locali, affidandoli a società private o pubblico/private all’interno delle quali il socio privato non detenga una quota inferiore al 30%. Particolare apprensione è stata determinata dall’approvazione, avvenuta lo scorso 5 agosto 2008, dell’articolo 23 bis del decreto legge 112 che di fatto sottomette alle regole di mercato la gestione dei servizi idrici, snaturando la figura stessa dei “Comuni” che da enti deputati ad operare nell’interesse collettivo si trasformano in soggetti finalizzati alla costruzione del profitto proprio attraverso la gestione privatistica di quei beni, come l’acqua, che dovrebbero essere patrimonio di tutti. Il provvedimento in questione si pone oltretutto in evidente contrasto con il Codice Civile che agli articoli 822 e seguenti dispone la legislazione relativa al demanio pubblico, stabilendo che “i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto
di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. Spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal presente codice.
E l’approvazione in Senato lo scorso 4 novembre dell’art.15 del DL 135/09 che il prossimo martedì 10 novembre dovrebbe approdare alla Camera.

Ma il decreto Tremonti rappresenta solamente il terminale di tutta una lunga serie di leggi e provvedimenti che a partire dagli anni 90 hanno progressivamente svenduto il patrimonio pubblico, contribuendo a creare monopoli privati o pubblico/privati che gestiscono i servizi primari per i cittadini unicamente nell’ottica della massimizzazione del profitto.
Oggi in Italia le condizioni della rete idrica risultano essere estremamente precarie a causa della scarsità d’investimenti pubblici e della loro cattiva gestione, facendo si che quasi un terzo dell’acqua incanalata nelle tubature si disperda prima di arrivare nelle abitazioni. Una situazione di questo genere potrebbe per molti versi favorire qualunque privato abbia intenzione di subentrare al pubblico nella gestione degli acquedotti, promettendo una migliore gestione degli stessi. Il decreto Tremonti “chiude il cerchio” applicando per legge la privatizzazione dell’acqua e sdoganando in questo modo l’operato dei colossi del settore che da tempo mirano ad ottenere il controllo del business relativo alla distribuzione della “merce acqua” che costituisce un obiettivo assai ambito in quanto potenzialmente in grado di generare enormi profitti.

La spesa degli italiani per l’acqua, attualmente in media circa 250 euro a famiglia (ma la distribuzione è assai irregolare e si va da un minimo di 81 euro ad un massimo di 587 euro) risulta essere ancora generalmente sostenibile, ma negli ultimi 10 anni le bollette sono incrementate mediamente del 61% e inoltre un italiano su tre è costretto a pagare una bolletta irregolare (sentenza 335 del 10 ottobre 2008 della corte Costituzionale) in quanto versa contributi per depuratori che non esistono o non sono funzionanti. In alcuni casi inoltre l’acqua che arriva nelle case delle famiglie italiane risulta essere inquinata da decine di sostanze altamente tossiche e nocive per la salute dell’uomo, così come accaduto a 450.000 cittadini abruzzesi che per oltre 20 anni hanno bevuto a loro insaputa acqua avvelenata dai residui tossici degli stabilimenti Montedison, o agli abitanti del Monferrato l’acqua dei cui rubinetti risulta contaminata dalla radioattività derivante dalle scorie nucleari depositate a Saluggia. Il tutto senza che gli organismi preposti al controllo si siano mai sentiti in dovere d'informare la popolazione, così come disposto dalla legge.

L’apertura ai privati e la volontà di trasformare il bene acqua in una merce che sarà venduta a caro prezzo da multinazionali, come Veolia già specializzate nel settore, o dalle multiutility quotate in borsa come A2A ed Hera che oggi accumulano fortune miliardarie attraverso l’incenerimento dei rifiuti, non induce purtroppo ad essere ottimisti. Se prenderà corpo una privatizzazione sempre più spinta, il costo dell’acceso all’acqua per i cittadini italiani sarà infatti destinato ad incidere in maniera significativa e probabilmente insostenibile all’interno degli scarni bilanci familiari, già oggi per troppe persone pesantemente deficitari. Agli incrementi dei costi non corrisponderà inoltre, come sempre accaduto fino ad oggi in caso di privatizzazione, un miglioramento del servizio, dal momento che l’unico obiettivo di una società privata resta la massimizzazione del profitto, ottenibile unicamente riducendo i costi ed incrementando i ricavi.
Il nuovo decreto procede pertanto esattamente nella direzione inversa rispetto a quella che sarebbe auspicabile nell’interesse del bene comune di noi tutti. Anziché privatizzare l’acqua, trasformandola in una merce da vendere a caro prezzo, occorrerebbe infatti mantenere pubblica la gestione, migliorando la rete di distribuzione attraverso tutta una serie d’investimenti di risorse finalizzati a incrementare l’efficienza della rete idrica e dei depuratori, eliminando in questo modo gli sprechi ed i rischi d’inquinamento. In questo genere di opere, necessarie per il benessere della collettività, andrebbero investite le decine di miliardi di euro che invece attualmente vengono depauperati nella costruzione di grandi opere cementizie (TAV, Mose, nuove autostrade, megainceneritori ecc.) che risultano tanto dannose per l’ambiente quanto assolutamente inutili per i cittadini.
La gestione pubblica, orientata ad ottenere la migliore qualità di servizio per il cittadino, anziché l’obbligo della creazione di un profitto, rappresenta l’unico sistema in grado di salvaguardare i diritti di ciascuno, garantendo a tutti l’accesso ad un bene indispensabile quale è l’acqua. In questo senso occorre muoversi senza esitazione, poiché lo spettro della privatizzazione dell’acqua rappresenta l’ultima frontiera sulla strada della mercificazione di tutto l’esistente e si tratta di una strada senza sbocco e senza ritorno.

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